Voluttà

Non faccio sintesi, mi colpiscono i tuoi particolari: la linea del corpo, la voce quieta, le lentiggini del viso et rien ne va plus.
E indagando il mio sentire mi sciolgo a pensar posare il mio sguardo su di te. E quando mi soffermo sui tuoi particolari penso che le mie consunte catene possono pure confluire presso una felicità dell’amore e perdersi nella bambagia mentre ti sfioro con cento mani che ricoprono di carezze il tuo corpo e le tue cento mani mi restituiscono il piacere dell’amore.
E respiro il sudore della tua pelle quando le nostre lingue si intrecciano, le labbra morse, e le mani mosse dalla legge di gravità che cercano l’origine del mondo per raggiungere il limite del piacere. E al moto sinuoso del tuo corpo mi abbandono, come il vento con la foglia, sballottato senza doglia.

Tormenti a Manhattan, Interstellar Tower, the 101st floor.

VIVA SAN FERMÍN!

“Dicono che Osasuna vincerà la corsa”.
“Allora se tutto è già deciso non c’è bisogno che corra”.

Prologo
A Roбirок, sperduto villaggio nella steppa ad oriente della Cimmeria, due amici allevano in comune una mandria di bovini, entrambi figli di allevatori si conoscono dall’infanzia. Dopo gli studi superiori conseguiti l’uno in Economia e l’altro in Letteratura, si convincono che stare a contatto con gli animali e la natura allunghi la vita piuttosto che ammalarsi di ulcera confliggendo in ambienti chiusi con altre persone. Data l’amicizia di lungo corso decidono di unire le rispettive mandrie per aiutarsi reciprocamente.
L’economista: “Nanta ca a sa zente praghede a investire finzasa a candu s’ultimu cantigheddu guadangiau esti aicci minoreddu ca sparessidi in tottu”.
Il letterato: “Asi mai intendiu chistionare de sa zittadi de Pamplona? In su mesi de treulas fainti una festa cun sa zenti chi si faidi currillai de is mallorus. Poi a merì du su bocchinti commenti fadianta in su Colosseo cun is gherradoris”.
A causa della distratta digressione la mandria sfuggì al controllo.
“Oh! Ah! Rayu! Se fuìu su malloru, gutta di callidi”. L’economista saltò sul toro dal suo cavallo in corsa e lo domò prendendolo per le corna, il letterato col suo mezzosangue riuscì a interrompere la corsa della mandria bovina nella steppa.

Intanto nel primo mobile
Fermín banchettava con Isidro e Cecilio nella sfera del primo mobile cibandosi di ambrosia. Mangiavano e libavano parlando in libertà.
“Ma perché Ernest l’ha intitolato – Il sole sorge ancora -?”.
“Perché l’oggi sarà uguale al domani lungo un ordine temporale in cui l’aurora e il tramonto si ripetono quotidianamente sino al compimento dei giorni”.
“Ma ognuno vive la propria vita concretandola in una esperienza irripetibile sino al trapasso. Anche se il sole sorge ogni giorno, il mortale vive una sola aurora nel momento in cui nasce, e subisce un solo tramonto al decesso”.
“No Fermín, no! Ernest si è focalizzato sui giorni della Fiesta a Iruña. Il sole sorge ancora significa che a Iruña durante i festeggiamenti in tuo onore il sole non tramonta mai perché tutti sempre a bere, a ballare, a correre e a discutere in una continua movida di felicità”.
“Ma le messe, le processioni, le preghiere?”
“Oh! Là troverai giovani, adulti, vecchietti e famiglie. Fermín, ciascuno si ritaglia la propria festa: chi la vuole pagana e chi la vuole religiosa”.
“In questo primo mobile la vita sarà pure bella ma niente emozioni. Chiederò a Pietro di darmi le sembianze di mortale per discendere a Iruña e provare le loro stesse passioni durante la festa”.

La Fiesta
Detto fatto. Fermín si risvegliò il 6 luglio sul letto di una locanda quando la figlia del mattino, l’aurora dalle dita di rosa, sorse a Iruña. Poi incamminandosi verso il centro storico, notò che le vie erano già affollate di persone vestite con la divisa bianca e la fascia e il fazzoletto rossi.
Attraversò il Puente de Curtidor e si mise in fila per l’ascensore gremito che gli avrebbe evitato la salita a piedi verso il cuore della città, una babele di lingue si intrecciava ma su tutte l’euskara.
Due pellegrini parlavano una lingua ignota: “Ajò, andausu a murzai ca esti primu mengianu”.
Fermín comprese solo murzai, pronunciato identico a l’euskara, percorse la Calle Jarauta e stette dietro di loro.
Erano due fenotipi curiosi: di bassa statura, gambe arcuate e corte rispetto al busto, braccia robuste e pelose, voce gutturale e un’unica folta arcata sopraccigliare che faceva da trait-d’union tra i due occhi. Si appellavano Giuanni e Jaccu e la divisa indossata risplendeva su loro come la bellezza sui cinghiali.
I due fecero l’ingresso nella peña El Txarko e presero nota che le persone indossavano sulle divise fazzoletti blu in luogo di quelli rossi.
“Rayu! Nosu arrubius e issusu drocchìus”.
“T’appu nau de intrare in su cuile”.
Fermín entrò pure lui.
Un lungo tavolo disteso ed altri più piccoli ad esso perpendicolari potevano ospitare decine di persone. Il menù era composto da uova fritte, salsiccia e pancetta ai ferri, pane e una bottiglia di vino Navarra, ma una bottiglia a testa!
Quando furono serviti mangiarono in silenzio, e scolato il Navarra Jaccu trasse dalla piccola bisaccia una borraccia colma di un distillato aromatizzato e iniziò a bere a piccoli sorsi. Considerato che il primo sorso iniziò alle 9.00 e l’ultimo terminò alle 11.00 con voce appena biascicata Giuanni disse all’amico: “S’ora esti arribbada, toccada a andai”.
Fermín che stava seduto di fianco, decise di seguirli. In un attimo furono al centro della Plaza Consistorial, dirimpetto l’Ayuntamiento ove migliaia di appassionati si erano radunati per l’inizio della Fiesta.
Mancavano alcuni minuti a mezzogiorno e già si sentivano i cori mentre la folla ondeggiava, le divise dei due pellegrini da bianche si trasformarono in colore rosso perché il vino pioveva a zampilli dalle borracce scosse dalla folla di festanti, palloni colore blu e giallo rimbalzavano sopra le loro teste, bandiere della Navarra sventolavano.
Giuanni e Jaccu avevano letto del valore della puntualità spagnola, che vuole dire che mezzogiorno significa mezzogiorno in punto. Noncuranti del bordello della piazza riuscirono a posizionarsi sotto il palazzo dell’Ayuntamiento. Nel balcone presero posto i banditori in livrea che iniziarono a battere sui tamburi e a soffiare sulle trombe. Repentinamente Giuanni e Jaccu frugarono dentro le bisacce dalle quali estrassero alcuni guettus, mortaretti che sparati scoppiarono all’unisono mentre il rappresentante dell’autorità civile gridava “Viva San Fermín!”. All’udire degli scoppi la folla cominciò ad urlare, le onde umane a muoversi e la Fiesta iniziò con il chupinazo oscurato e ridotto in subordine dai guettus.
Talune onde seguivano le bande musicali, altre i concerti nelle piazze, nei pressi della Plaza de toros iniziò la discoteca, gli amanti delle bevande alcoliche si riversarono nei locali mentre dai balconi dei palazzi i secchi di acqua e i ruscelli di vino bagnavano i vestiti e i palati dei festanti. Il centro storico di Iruña conteneva una incommensurabile quantità di persone in continuo moto incanalate nelle vie e nelle piazze.
Giuanni e Jaccu si fermarono nei pressi di El Perro Verde dove una band suonava buona musica rock. Un gruppo di persone indossava magliette con la scritta “Wine lover”, i due spiritosi amici di Roбirок in risposta estrassero dalle bisacce una maglietta bianca con la scritta “Buffa!” e la indossarono. Giuanni si sedette al tavolino e Jaccu andò a ordinare due bicchieri di Navarra, quando rientrò notò due vegliarde parlare con Giuanni.
“Anti nau ca teninti gana de baddai, e ita ‘ndi penzasa?”.
“O su cumpangiu, lèggiasa che pistilloni”.
Jaccu guardò con occhio torvo allo stesso modo Giuanni e le due vegliarde che, capita l’antifona, si allontanarono volontariamente.
La bellezza della Fiesta è incontrare tante persone e diventare amici per qualche minuto o qualche mezz’ora e poi salutarsi felicemente.
I due compari si infilarono dentro a un’onda trasportata da una banda musicale che suonava la samba e trascorsero il pomeriggio bevendo e ballando.
Fermín che seguiva Giuanni e Jaccu dalla mattina decise di presentarsi ai due.
Provò in lingua inglese, poi francese, tedesca ed euskara ma senza esito. Infine si illuminò e constatò come Giuanni e Jaccu erano pronunciati simili agli spagnoli Juan e Yago.
Contatto avvenuto, Fermín attaccò a parlare spagnolo e la comunicazione prese velocità. Jaccu estrasse la borraccia dalla bisaccia e gli intimò “Buffa!”, svuotato il bicchiere Giuanni ordinò all’amico: “Torraghettare!”. In un’ora la borraccia passò di mano il numero di volte esatto per essere svuotata e Fermín asserì: “Ora sono in grado di farvi qualsiasi domanda. Perché siete venuti a festeggiare?”.
“Po sconciai is giogus”.

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Fedora

Sulla pelle mi hai tatuata con un crotalo, per farmi ricordar dell’aspide nel cuore che mi succhia la tua crudeltà. Ora non sento più dolore, niente c’è più niente da succhiare.*


Luccichìo congelato
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All’età di ²¹ Fedora era giovane componente della Galaxy Rescue Squad, unità speciale addestrata per l’imponderabile con licenza di uccidere e sede operativa a Cloe, città ove le persone non parlano, solo sguardi e pensieri per tenere sospeso il mondo reale. Fedora nel pieno della felicità e della forza, innamorata di Anceo col quale in ogni istante scambiava sguardi, intese e con il pensiero consumava amplessi perché la fantasia non si perde nella tristezza del reale.
La vita vissuta con leggerezza e niente stravizi, passeggiate all’aperto, bagni nelle azzurre acque del mare, amante dei fiori di campagna: ad ogni odore l’olfatto associava un fiore. Solo pensieri positivi oltre i momenti di servizio in cui consumava le sue energie.
Nel corso di una missione ebbe inizio l’inversione U-turn, con lo sguardo raccontava i fatti al Gran Capo Kublai Kan.
“Grande Kublai Kan,
in questa notte tormentata il talamo ha ricevuto una richiesta di intervento. Lo stato d’allerta attivato perché l’algoritmo ha rilevato uno scostamento delle condizioni ambientali superiore alla metà delle variabili standardizzate. Sto recandomi presso l’appartamento al numero ³ del grattacielo Lucifer Sam nel cuore dell’oscurità profonda dell’Universo complemento.
Il Vettore viaggia ad una velocità di ⁹⁹ anni ogni secondo, al limite dello sforzo motorio, giustificato dalla chiamata al numero che si occupa di affrontare l’imponderabile.
Pronta a tutto impiegherò poche unità temporali per giungere a destinazione. Il mio sentiment presagisce eventi funesti, scansionerò l’appartamento dall’esterno prima di assumere decisioni.
Arrivata! Un ginepreto incomprensibile si agita all’interno, nelle pareti e negli spazi un magma viscido in costante movimento. Ora mi avvicino alla scena. Aiuto! Un essere lungo e squamoso sbucato per osmosi dalla parete mi cinge la vita ed il torace, mi trascina dentro ad un inferno. Striscianti e incomputabili serpi straziano un corpo sventrato, brandelli di budella sul pavimento. Il dito con l’anello a simbolo elicriso mozzato, quella spazzatura corporea non può che appartenere ad Anceo! Il profumo selvatico che pervade l’appartamento ne è la prova.
Ipazia, Valdrada e Zora siete arrivate mie salvatrici. Un Cobra ha scavato il mio petto a colpi di lunghe zanne ed è strisciato via, ora sono immobilizzata mentre mi curate e consolate, grazie.
Fedora, servitrice della città di Cloe“.
La Fragranza Unica e non Ripetibile, che associava uno ed un solo odore ad uno ed un solo cittadino di Cloe, certificò che Anceo era morto.
Fedora, Ipazia, Valdrada e Zora: l’orgoglio di Kublai Kan per narrare la superpotenza di Cloe nell’Universo complemento.

Lei perse il controllo
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La morte di Anceo amplificò le emozioni di Fedora che iniziò a bussare il limite dell’oscuro affacciandosi oltre le porte delle camere dell’inferno in cui si trascinava.
Si sedette a tavola e cominciò a mangiare formaggio coi vermi accompagnato da pane bagnato. Fedora poggiava sulla lingua le larve saltellanti e, schiacciandole, assaporava il gusto piccante e pungente. Cibo accompagnato da un litro di vino nero bevuto in mezz’ora.
Al termine tre compresse di litio e una moltitudine di gocce di benzodiazepine.
Uno stato allucinatorio prese possesso di Fedora, un viaggio onirico la fece affondare dentro a un pozzo cubico colmo di aspidi striscianti, le squame dei rettili aggrovigliati le sfregavano cosce, fianchi e collo. Un boa la stritolò ed aprendo le fauci, la ingoiò nelle proprie viscere liberando gli acidi che la sciolsero rendendola indistinguibile dagli altri fluidi intestinali.
Durante l’incubo le braccia e le gambe scuotevano incontrollate, gli occhi roteavano, lo stato incosciente.
Fortunatamente l’agente speciale Fedora era tutelata contro la perdizione: Ipazia, Valdrada e Zora, sue salvatrici, con gli occhi le accarezzavano il corpo. Le colleghe apprezzavano Fedora anche quando sprofondava nei pozzi oscuri, col pensiero le asciugarono il sudore e attesero pazientemente. Al risveglio la condussero al parco centrale di Cloe per una passeggiata silenziosa, poi la riaccompagnarono a casa salutandola con un sorriso. Rientrarono nella residenza di servizio ubicata nel cuore di un grattacielo al piano ⁶⁹ di Interstellar Overdrive.
Fedora ripensò al sogno raccapricciante e cercò di interpretarlo per predire il futuro.


Trioon I
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“Magnifico Kublai Kan,
oggi sono rientrata in servizio e mi dirigo verso la galassia Trioon.
Conto il tempo che mi rimane per entrare in azione preparandomi a fronteggiare l’incognito: questo sconosciuto di cui a breve farò la conoscenza. Un pò di China White mi farà bene, farò librare il Vettore sotto il grattacielo sospeso.
Salgo le scale per arrivare nell’appartamento da cui l’allarme è partito. Oltrepasso il confine parietale ma nulla, nessun accidente. Ora avvio una nuova scansione cronologicamente retrodatata: oh porca puttana! Nelle precedenti unità temporali si è svolta una grande lotta”.
Una scena angosciosa avanti a Fedora. Lo stesso Cobra che voleva mangiarle il cuore lottava con Kublai Kan che forte della sua lunghezza e con un diametro ragguardevole cercava di soffocare l’avversario. Questi dotato di numerose vertebre e altrettante costole per ogni lato corporeo aveva una mobilità che gli consentiva la giusta elasticità nei movimenti.
Il Cobra restrinse le costole, saltò verso il soffitto e durante la discesa puntò gli occhi di Kublai Kan in cui furono iniettati gargantuesche quantità di veleno che ne spensero il corpo.
Al termine della scansione retrodata Fedora captò un quid che non riuscì a decifrare, ne prelevò un campione e lo inviò alle colleghe per le analisi di laboratorio.
“Perché Il Cobra ha ucciso Kublai Kan?”. Fedora non ebbe risposte, s’incazzò, maledisse le galassie e durante il viaggio di ritorno tracannò una bottiglia di Mezcal, per ultimo schiacciò col palato il verme gusano e per il piacere socchiuse gli occhi sorridendo.
L’atterraggio non dei migliori perché se il gusano aumenta la forza fisica dall’altra disperde la capacità di concentrazione, insomma la forza a discapito della precisione.


Allucinazioni
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“Caro Kublai Kan,
spero possa ricevere questa comunicazione ovunque tu sia. Tutte per una e una per tutte! Le tre moschettiere lavorano alacremente per comprendere la struttura del quid che ho loro consegnato. I tentativi sembravano fallire, la materia criptata impediva di decifrare le regole di formazione e trasformazione della struttura, rendendo impraticabile una qualsiasi interpretazione e la corrispondenza tra questa e la natura del quid.
Ma Ipazia è illuminata, ha deciso di proseguire l’esperimento isolando due coppie di variabili dalle infinite possibili. Associa ad un elemento, un solo ed un solo altro elemento. Forma pertanto delle coppie ordinate per cui lo stato Y è inferito dal valore dello stato X. Attribuendo un valore ad ogni incognita, tenute ferme le altre, esaminerà compiutamente tutte le variabili con un processo combinatorio.
Sono stati necessari pochi minuti per completare il processo computazionale e fornire la risposta. Le tre colleghe hanno annusato un profumo inatteso ma conosciuto.
Mi hanno avvertita affinché stia guardinga e preparata. “Ma non era morto? Brutto figlio di puttana!”.
Anche se non sei più tra noi sono sempre al tuo servizio, Fedora”.
La natura e la fonte del pericolo erano così fastidiosi che Ipazia, Valdrada e Zora decisero un piano d’azione per neutralizzarli. Le tre moschettiere vivevano nella medesima abitazione e condividevano il medesimo giaciglio, ma risiedendo nella città di Cloe solo sguardi e pensieri erano ammessi: per cui a letto i busti, le braccia e le gambe si sfioravano senza toccarsi.
Le teste posizionate in modo che gli occhi di ciascuna potessero guardare gli occhi delle altre: Ipazia che sognava di infilare la lingua dentro il canale auricolare di Valdrada che fantasticava di mordere il lobo dell’orecchio di Zora che bramava baciare il collo di Ipazia in una comunione piloerettiva dei corpi. Piacere puro!
La danza ebbe inizio, gli sguardi persi nel vuoto, bocche lentamente asimmetriche, sospiri e corpi in movimento ondulatorio, i bacini che salivano e scendevano, gambe che sospingevano i busti, le teste roteanti. L’andamento sinuoso dei corpi di Ipazia, Valdrada e Zora attirò famigli immondi che si palesarono attraversando le pareti per osmosi. Le tre danzatrici riconobbero il profumo e, per implicazione, Il Cobra avere fatto ingresso nell’appartamento; la battaglia iniziò. La prima danzatrice cercò il collo del Cobra, la seconda contorceva il corpo addugliandolo ai primi. Arrotolati, i corpi legati in continuo moto, le teste si allungavano e mordevano. Il Cobra ritrasse le costole e restringendosi si liberò, conficcò negli occhi di Ipazia le zanne e il veleno colò. La seconda e la terza stritolate dalle aspidi corree.
I corpi di Ipazia e Zora straziati, divorati dai crotali. Un pitone si infilò nella bocca di Valdrada agitandosi dentro il corpo e sbucando dal ventre.


Testa ferita
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La morte traumatica delle amiche obbligò Fedora a percorrere sentieri mai battuti, per la prima volta nella sua vita viveva le asperità: col tatto toccava la rugosità della materia, con l’olfatto inalava i cattivi odori, gli occhi osservavano la bruttezza, masticava un disgustoso formaggio coi vermi.
La rabbia ed il dolore inversamente proporzionali, la prima cresceva il secondo anestetizzato: “Ora non sento più dolore, niente c’è più niente da succhiare”. La vendetta da consumarsi immantinente all’arma bianca. Cosciente che quel porco fedifrago l’avrebbe cercata, nell’attesa gonfiava la rabbia violenta e parlava ad alta voce: “Quel gran brutto figlio di puttana ha cercato di sovvertire l’ordine armonioso di Cloe con un attacco al cuore della Città. Kublai Kan non potrai più ricevere i racconti delle nostre avventure, ma sappi che oggi per te farò molto rumore”.
Il profumo dell’elicriso ed il ventre strisciante del corpo annunciarono Anceo, Fedora sentì anche innumerevoli serpi strisciare ed iniziò a trasformarsi. Grande fu la sorpresa di Anceo “Il Cobra” quando un Black Mamba si presentò al suo cospetto pronto a rilasciare la sua furia contro lui e le ⁸⁸ serpi.
Fedora aka Black Mamba con la testa a forma di bara, lunghissima e numerose vertebre per altrettante costole per ogni lato. Non perse tempo, sollevò maestosamente il corpo e mordendo Il Cobra sotto la testa lo lanciò verso gli altri rettili ove si buttò addugliandosi ai simili e iniettando veleno dalle costole aperte.
Il Cobra fu avvolto con una manovra a spirale e la testa bloccata: Black Mamba l’aperse con le zanne velenifere. Poi due profondi solchi partirono dalla gola, recisero l’aorta e squarciarono l’intestino.
Della battaglia di Fedora contro Anceo e gli ⁸⁸ rettili rimase solo il mito raccontato nei tempi che fece diventare leggenda la Galaxy Rescue Squad, con sede operativa a Cloe, la città invisibile dei cui racconti nessuno conoscerà mai la verità.


Fonti ispiratrici
*Contratto per Karelias, Canzoni a manovella, 2000, Vinicio Capossela;
Le città invisibili, 1972, Italo Calvino. In particolare la città di Cloe.


Omaggi
Joy Division;
Pink Floyd;
Kill Bill! Vol. 1


Scaletta musicale
Glitter Freeze (Feat. Mark E Smith), Plastic Beach, 2010, Gorillaz;
She’s Lost Control, Unknown Pleasure, 1979, Joy Division
Trioon I, Vrioon, 2002, Alva Noto & Ryuichi Sakamoto;
Hallucinations, Goodbye and Hallo, 1967, Tim Buckley;
Head Injury, Ultramega OK, 1988, Soundgarden;

Rewind

Nota dell’autore: Ho rivisitato questo breve racconto in origine pubblicato nel settembre 2021 col titolo “La festa di H.”. Anche dopo gli aggiustamenti rimane un racconto senza pretese.

Riavvolgi il nastro, cambierai vita.

Una monade
Nicola viveva una vita normale, non aveva goduto degli agi della vita e non li aveva cercati, i quindici minuti di gloria erano rimasti appesi sulle labbra di Andy Warhol. Si trovava a suo agio percorrendo la direzione del tempo remoto, ben consapevole che il passato ed il futuro divergono perché il primo non tornerà mentre il secondo illuderà.
In base al suo paradigma prendeva atto delle esperienze vissute e almanaccava d’attraversare il Messico: sognava di partire dalla Baia della California guidando una Ford Mustang, per arrivare alla Playa del Carmen. Desiderava fuggire per chiudere con il passato anodino e salutare tutti da terre lontane.
Ma il desiderio di fuga non si era ancora realizzato per le prosaiche vicende che lo avevano accompagnato in vita: si era fidanzato che era giovane ma prima mai una ragazza, perché troppo timido e con poca autostima. E dopo la prima, la seconda e la terza tutte un insuccesso sino all’età di quarantanove anni quando, senza più fidanzate e molti ricordi melanconici si consolava a frequentare un esclusivo club, talmente esclusivo da esserne l’unico socio: “Che bello sarebbe vivere a Cloe, città invisibile. Solo sguardi e pensieri nascosti, niente parole, e la giostra della fantasia a tenere sospeso il mondo reale”.
Nicola era così, curiosava e speculava fuorchè su questioni pratiche. Filosofare e speculare erano le sue passioni ma zero concretezza: per questa ragione le fidanzate lo lasciavano.

Il momento di rottura
Il 21 di giugno del quarantanovesimo di vita Nicola era disteso sul divano di casa immerso nel suo microcosmo quando gli sovvenne che proprio quell’anno ricorreva il venticinquesimo della sua Laurea e che sarebbe stato bello organizzare una festa e rincontrare gli amici dell’adolescenza e della gioventù, quelli dell’Università, quelli dell’età adulta. Ben consapevole che taluni non li vedeva da decenni sperava comunque accettassero l’invito, non foss’altro per potersi riabbracciare, fosse anche per l’ultima volta.
Si buttò nell’impresa. Definì il video per gli inviti, accostò ciascuna foto del video ad una frase, quasi tutte un omaggio alla rivolta studentesca del ’68 con l’intento di creare curiosità verso l’evento. Nicola provava simpatia per il periodo sessantottino perché pur con tutte le sue contraddizioni era stato in grado di mettere paura al potere. Le lotte degli studenti e degli operai avevano infilato dentro il sacco, tra gli altri, lo Statuto dei Lavoratori, la legge sul divorzio e tanta beffardagine. Da “Godere operaio”, a “Ci siamo rotti il cazzo di Hegel” o, infine, “Siamo realisti, chiediamo l’impossibile!”.
Scelse il luogo della festa individuandola nel cuore della penisola dei Girasoli. Un’area verde e capiente da dove gli invitati avrebbero goduto della notte stellata e dell’aurora. Vedere l’aurora dalla penisola dei Girasoli sarebbe stato uno spettacolo indimenticabile: l’ombra dello spartiacque del Monte Rosso sarebbe apparsa con la colorazione purpurea dai raggi rifratti del sole.
Gli inviti partirono digitalmente. Il giorno fu fissato per il 10 agosto per le ore 22.00, piena estate, stelle cadenti, tutti in ferie e nessun alibi per non partecipare.

Benvenuti!
La sera del 10 agosto alle 22.00 per prima arrivò Laura, sempre splendida, capelli neri e lisci, questa volta raccolti, e occhi e sorriso seducenti.
Erano passati venticinque anni da quando Nicola e Laura si erano lasciati, nel senso che non si erano più visti, perché oltre l’empatia non ci si era mai spinti, erano stati dei bravi giovani.
In gioventù Laura aveva condiviso l’approccio filosofico di Nicola, che aveva trovato in lei una interlocutrice autenticamente interessata ad approfondire argomenti di ogni genere, dall’arte allo sport, alla geopolitica, ma anche lei aborriva le questioni pratiche. Ed è per questo motivo che gli interessi di Laura e Nicola erano affini ed avevano originato la relazione empatica.
Ma Laura, a differenza di Nicola era solare e le piaceva dialogare ed ognuno si sentiva a suo agio a parlarle. Spesso la sua disponibilità veniva fraintesa ma qualsiasi approccio elegantemente diniegato, fatto che aveva contribuito a generare su di lei la leggenda: “É guardare ma non toccare!”.
“Grazie per essere venuta! Come stai?”
Nicola annotò che Laura era vestita con una T-shirt e dei jeans che modellavano il corpo slanciato e proporzionato, ma non poté proseguire la conversazione perché iniziarono ad arrivare gli altri invitati.
Accorse Tommaso, colui che tutto sapeva, che tutto sapeva fare, sicuro di sé, perentorio nei giudizi. Se rinunciavi a misurarti ti inseriva nel dominio degli ignavi ed in quel dominio condannato a vivere per il resto dei giorni. Per Tommaso non potevano esistere l’inadeguatezza o la mancanza di interesse, la fragilità e la diversità non facevano parte del suo paradigma.
Aveva la pretesa di non essere secondo ad alcuno ma, a riferire la verità, per primo non giungeva quasi mai. Però non poteva essere dato che lui, a suo giudizio, non si dimostrasse all’altezza degli eventi. La discrepanza tra l’autostima e la valutazione oggettiva delle sue imprese, produceva talvolta dei siparietti imbarazzanti per gli spettatori ma non per lui che sulle questioni di “stima” riusciva a superare persino la sua stessa autostima.
Poi arrivò Mauro, astuto, capacità di comprensione immediata, in grado di gestire strutture dinamiche. Dalla battuta veloce e pertinente, sapeva mettere a loro agio i suoi interlocutori.
Ecco Stefano, compagno di scuola primaria che Nicola avrebbe preferito non invitare, ma che rientrava nella lista alla voce “inviti di necessità” perché se inviti gli altri compagni è sconveniente non rispettare il pro-forma.
Dai capelli lunghi, lisci e neri e viso colore dattero non aveva neppure conseguito la licenza di scuola secondaria di primo grado. Prima che allo studio pensava a smontare e rimontare pezzi di motore, con l’arrivo dell’adolescenza iniziò a bere birra al bar e commentare di tette, figa e culi. Ogni tanto una scazzottata per ripianare divergenze di vedute.
Sbottonò ulteriormente la camicia appena intravide Laura, non conoscendola non poteva certo sapere del “guardare ma non toccare”.

Scuoti i fianchi
La discoteca ebbe inizio, gli invitati ballavano e chiacchieravano con o senza bicchiere in mano.
La discomusic trasformava gli invitati in urlanti euforici: “Shake your booty, that’s the way I like it. It’s Hot stuff … but don’t let me be misunderstood”, tutti contenti a ripetere: “Scuoti il sedere, così mi piace! È roba calda … però non fraintendermi”.
Chi faceva salotto discuteva animatamente di politiche statali per la crescita economica, di distribuzione del reddito, di disuguaglianze sociali, della secolarizzazione del potere temporale e della peripatetica incorruttibilità dei cieli. Qualche vetero, o forse no, si infervorava sulla necessità del conflitto di classe.
Ma maggiore il numero dei bicchieri di vino bevuti i discorsi vertevano, in ragione geometrica esponenziale, sulle convocazioni nelle squadre di calcio, sui vicini di casa rompicoglioni, sui pettegolezzi amorosi extramoenia dei conoscenti … e quando l’affettatrice è in moto nessuno si salva.
Nicola si godeva la festa, felice di essere omaggiato, osservava gli invitati quando sentì un colpetto sulle spalle. Fece appena in tempo a voltarsi e comprese che Tommaso e Mauro volevano chiacchierare con lui.
Nicola era consapevole che il percorso di persone un tempo amiche segue la sequenza: prima amici, poi amici di cerimonie per matrimoni, funerali, battesimi e cresime e successivamente incontri occasionali pregni di convenevoli imbarazzanti.
Per sua fortuna con Tommaso e Mauro si trovava dentro la sequenza amici di cerimonia e non gli fu difficile continuare la chiacchierata.
“Io proseguo nell’attività familiare di produzione di vino”, disse Tommaso, “Stiamo promuovendo Angioy, il nuovo brand che sarà esportato in Russia e negli Stati Uniti. Dal prossimo anno piazzeremo almeno un milione di bottiglie in quei mercati. Il dividendo atteso è così elevato che finalmente riuscirò ad acquistarmi un venticinque metri con randa, controranda e fiocco”.
“Così potrai invitare Laura a bere il tuo Angioy in barca” affermò Mauro, “Guardala e godi delle sue movenze, ma non pensare oltre che ti farai male”
“Ehi! Posso corteggiarla in ogni momento. Quando ero giovane stava per prendermi, fatta la doccia mi accingevo ad asciugarmi quando Laura entrò in camera senza bussare, guardò proprio lì e sorrise”. “Lì dove?!” “Dove non batte il sole cretino, si avvicinò decisa con un approccio esplicito e mentre già sentivo accalorarmi, da gran coglione, bussasti alla porta interrompendo l’emozione”.
“Bum! Smettila di raccontare il tuo sogno erotico è noto a tutti che Laura non si è mai concessa”.
“Mauro ha ragione, non spendere energie inutili. Lei gradisce essere stupita con racconti ben narrati e ama divertirsi. Non sarà sufficiente possedere tutto il patrimonio del mondo per conquistarla”
“E tu Tommaso disponi del patrimonio ma pecchi di fascino”, affondò Mauro.

A ciascuno il suo
Alle ore 23.30 della serata danzante Stefano teneva banco con i suoi sodali discutendo animatamente della necessità di chiudere le frontiere per consentire ai nativi ma di razza italiana maggiori opportunità lavorative. Più lavoro per gli italiani, più figli nelle famiglie italiane, meno contaminazioni e malattie d’importazione. Un autarchico autentico. A voler essere rigorosi un razzista che ha paura di chi abita oltre i suoi confini.
Con il gomito appoggiato sul bancone, l’altra mano che fendeva l’aria e le gambe incrociate con un piede ben piantato a terra non si rendeva conto del basso livello di astrazione del suo ragionamento: anche l’erezione di muri fisici non avrebbe impedito nel tempo i flussi migratori in entrata ed in uscita. L’homo sapiens è nato in Africa e nei millenni ha colonizzato l’intero Pianeta, senza fretta.
Gli sfuggiva inoltre, ma proprio gli sfuggiva, che lui che amava definirsi di razza italiana era un sardo quindi crogiuolo di razze protosarda, fenicia, cartaginese, romana, spagnola e mora: insomma era una razza bastarda ma non italica che, anche assumendo che alcuno creda che esista, rimaneva anch’essa bastarda.
Tra mano fendente, voce narrativa e bicchieri di vino bevuti Stefano voltò lo sguardo a sinistra per scacciare una fastidiosa zanzara ma la vista, inopinatamente, volse lo sguardo anche verso Laura che proprio in quell’istante stava chinandosi per riannodare le stringhe delle scarpe.
Un riflesso incondizionato scosse le sinapsi da cui partirono i comandi verso muscoli, nervi e arterie. Dopo il brivido fu il turno del pensiero emotivo, l’unico di cui disponesse perché il suo cervello era privo dell’emisfero razionale, che fece sussurrare alle labbra: “Quella è una rotondità”.
Con scatto agile Laura si rialzò guardandosi attorno tutta sorridente ma senza rendersi conto d’essere una sorvegliata speciale.
Mauro, che per inciso era un alto funzionario del Ministero degli Affari Esteri, si divertiva a discutere un particolare tema della teoria dei giochi: cercava di spiegare come sia possibile che si possa conseguire il massimo beneficio con un comportamento onesto, credibile e cooperativo piuttosto che opportunistico e egoistico. Quest’ultimo infatti era strategicamente accettabile solo nella ipotesi in cui gli attori partecipassero ad una unica partita anziché misurarsi più volte. Ma la dura realtà, soprattutto nei mercati internazionali, prospettava dinamiche di gioco successive nel tempo.
E utilizzando il repertorio linguistico e retorico concludeva: “Se Tommaso vende una confezione di bottiglie di vino ai turisti consumatori che visitano le sue vigne e la sua cantina allora può anche duplicare il prezzo ordinario di vendita, ma se vuole conquistare il mercato americano e russo giocando contemporaneamente su più tavoli e sperando in commesse ripetute nel tempo allora può solo affidarsi alla bontà del brand, alla onestà ed alla affidabilità. Per cui non è dato barare subendo altrimenti la reazione del dente per dente od il timbro di inaffidabile”.
Immaginatevi in questo momento quale persona, tra gli ascoltatori, avesse il petto più gonfio, un’altra citazione e si sarebbe lasciato andare a gesti di autoerotismo.
Dopo aver ammaliato la platea Mauro si estraniò, cercava una persona cui avrebbe voluto parlare. Era dai tempi dell’università che intendeva seriamente parlarci, ma la faccenda era delicata e avrebbe coinvolto tutto il suo giro di amici e conoscenti. Riuscire ad indossare la maschera, tenere la parte e nascondere il segreto ai tempi della gioventù universitaria era quasi un obbligo e anche molto doloroso. L’ansia e la depressione si alternavano ai momenti euforici e tutto ciò sempre rimase perché mai era riuscito a esternare il groviglio interiore. Ma il suo sguardo non la incrociava. Riusciva a intercettare solo Tommaso e quell’invitato tamarro che beveva vino e che, con il gomito appoggiato al bancone del bar, sbraitava chissà quali argomenti ai suoi sodali.

Nel cuore della serata
La mezzanotte scoccò ma nessuno se ne accorse in quanto tutti intenti a ballare e chiacchierare, il tasso di gradazione alcolica ed il peso dei freni inibitori viaggiavano inversamente proporzionali: il primo saliva mentre il secondo scendeva e tutti a ballare e strillare: “Venne fuori una biondina (che dolor, che dolor). Che era nell’armadio (che dolor, che dolor)”.
Il trenino si formò, ogni tanto un vagone deviava verso altro binario anche se in realtà deragliava, e infine si ricongiungeva al deviatoio successivo. Forse attirato dalla musica, dalla baraonda urlante o forse semplicemente per lamentarsi si presentò nell’area divertimento un asino che fissava guardando con serenità immobile i festanti.
“Ehi! Dico a voi. Io vorrei anche dormire. Per cor …”
L’asino non fece proprio a tempo a terminare il pensiero che un invitato, in confidenza con il vino nero, gli cavalcò sopra cercando di farlo scalciare a ritmo di musica.
Anche un altro invitato cavalcò l’asino tra le risate generali, infatti si piantò e non si mosse. A questo punto Tommaso, sempre medaglia di bronzo, con un balzo scostò il malcapitato dalla groppa del somaro e si mise a urlare “Brrr .., Trrr…, Prrr …, Grrr…, Concadeca…”, che non si capiva più chi tra i due fosse l’asino.
Ci fece una magra figura perché l’animale non si spostò di un millimetro, scese dalla bestia e sperando di recuperare aggredì Nicola insultandolo con “Cosa aspetti a montare sulla groppa? Non hai abbastanza coraggio? Hai paura di una bestia che non raglia e non scalcia? Sei il solito pavido!”.
Nicola fu subitaneo e pensò che Tommaso mai e poi mai gli avrebbe rovinato la festa. Cercò lo sguardo di Laura che gli restituì sorriso e serenità e pacatamente rispose: “Io non salirò sulla groppa e non ti spiegherò i motivi, mi diverte più contare gli asini!”.
La risposta tagliente fece strabuzzare gli occhi al capitano coraggioso e le gambe fecero giacomo giacomo ma, come nell’antica Grecia, entrò in scena il deus ex machina che assunse le sembianze di Mauro che richiamò l’attenzione di Tommaso e le sembianze di Laura che prese sottobraccio Nicola e lo portò a ballare.
Nicola, già scordato l’incidente diplomatico, cantava, ballava ma soprattutto parlava a lingua sciolta.
La sua anca sbatteva contro quella di Laura la quale oltre a non sottrarsi offriva anche l’interno coscia ed un sorriso birichino. Ma Nicola non cadeva in tentazione, per lo meno non ancora, ben sapendo che si poteva guardare ma non toccare.
Mauro osservava divertito e per un attimo pensò avrebbe voluto fare parte della comitiva, poi sospirò e sorrise pensando che la serata aveva raggiunto quasi il picco e non ancora compiuto il giro di boa.
Anche Stefano attenzionava da lontano il siparietto che ebbe l’effetto del suono del campanello per il cane di Pavlov. In men che non si dica si ritrovò a ballare e cantare con Nicola e Laura.
Le presentazioni furono fatte e l’uomo carente del controllo delle emozioni cominciò ad indagare sul pedigree di Laura con una raffica di domande imbarazzanti considerato che i due si erano appena presentati.
Lo sguardo di Stefano scansionava Laura senza pudore, gli occhi ruotavano velocemente dai fianchi al seno, al diametro delle caviglie e dei polsi, all’anulare sinistro, al corpo messo in risalto dai vestiti attillati. Laura capì il fenotipo che le stava di fronte e con una supercazzola trovò la scusa per sbarazzarsi del tamarro che non si diede per vinto ancorché lungo il corso della sua vita non aveva ancora realizzato di essere un rispondente che si trovava maggiormente a suo agio nella savana piuttosto che nella società civile. La seguì con lo sguardo mentre lei si dirigeva verso la cameretta prenotata per la notte.

Lo zio Tom
All’una e trentacinque circa la discoteca terminò perché il programma prevedeva l’inizio del concerto dello zio Tom.
In realtà Nicola durante la progettazione artistica della serata mai e poi mai aveva pensato che Thomas Alan Waits da Pomona sarebbe stato l’ospite speciale anche perché, a dirla tutta, nonostante la statura artistica del cantastorie nessuno degli invitati lo conosceva o era appassionato di atmosfere jazz e blues nebulose. Ma la fortuna aiuta gli audaci!
Nicola era membro di un social club denominato “The piano has been drinking, not me!” i cui iscritti erano in via esclusiva ammiratori di Waits. Ebbe quindi l’idea di postare un invito affinché un artista o una tribute band suonasse attingendo dal repertorio artistico del cantante californiano.
L’invito postato era del seguente tenore “Hallo, I’m looking for a singer to play Tom Waits’ songs, piano solo as well as other kinds. I cannot pay you but I live in Sardinia, a beautiful Island in Mediterranean sea. In case of acceptance you’ll be my guest for one week. Truly, Nicola”.
Insomma Nicola era alla ricerca di un interprete delle canzoni di Tom Waits, anche un piano solo andava bene. Non potendo permettersi di sostenere per intero i costi dell’organizzazione prometteva una vacanza in giro ed in largo per i mari di Sardegna a colui che avesse accettato di suonare alla sua festa.
Si fecero avanti poche persone ma una sembrava avere le idee più chiare delle altre: aveva predisposto un progettino per un piccolo palco giusto necessario per un pianoforte a coda, un contrabasso ed un sax.
Nicola sarebbe dovuto andare a prelevarli all’aereoporto e sistemarli in una di quelle casette tipiche della penisola dei Girasoli.
Grande fu la sorpresa quando nell’area arrivi riconobbe il facciale inconfondibile di Tom ancorché settantenne … per il fan il proprio idolo dovrebbe rimanere sempinterno giovane, ma così non è.
Tom concesse a Nicola anche l’onore d’inizio scaletta che per l’occasione scelse:
1) Christmas card from a hooker in Minneapolis;
2) Kiss me;
3) Burma Shave;
4) Take It with me;
5) Invitation to the blues.
Appena Tom attaccò tutti gli invitati zittirono: la voce profondo roco, il pianoforte, il contrabbasso ed il sax presero la scena, il vento smise di soffiare, il bancone di versare, e anche Tommaso, Mauro e Stefano rispettivamente smisero di sentenziare, di argomentare teorie provocatorie, e di rompere i coglioni.
Tutti gli invitati a chiedersi quale strana quiete nebulosa avesse sostituito il precedente baccano e chi fosse quell’artista sconosciuto e istrionico la cui voce cavernosa, graffiata e straziata faceva sobbalzare gli astanti. Ogni tanto beveva pure un bicchiere d’acqua.
Tra le poche persone che comprendevano l’idioma del cantastorie Laura era l’unica che maneggiava correntemente quella lingua, avendo vissuto l’esperienza degli ultimi due anni scolastici antecedenti l’università in un Collegio internazionale nel New Mexico.
Questo le consentiva, in via esclusiva, di apprezzare i testi delle canzoni. Una in particolare sembrava raccontare parte della sua biografia segreta: “Perdono signor Percy, niente di nuovo nel New Jersey: ho un uomo rottamato lasciato alle spalle, il sogno che inseguivo, la lotta con l’alcool e un esplicito invito al Blues”.
Avendo compreso la strana bellezza del concerto Laura osò muovere l’aria al termine delle cinque canzoni e si avvicinò da Nicola bisbigliando: “Ma è veramente bravo! Dove lo hai scovato? Racconta di storie vissute ai margini ma anche di storie d’amore. I testi sono tristi un pò come te, e rispecchiano il mio periodo da adulta”.
“A pensarci sono sempre stato un po’ triste e solo”.
Il tuo lato è sempre stato un po’ triste e solo, ma non mi metterei da nessun’altra parte”, e dopo dieci minuti Laura riapparve con un abito lungo di sottile raso nero, mentre il décolleté evidenziava il canale che separava armoniosamente i seni. Il brivido era accresciuto da uno spacco mozzafiato che quasi partiva dall’inguine, il sorriso completava il turbamento.
Vedendo Laura che si avvicinava, Nicola trasalì: “Movenza da libidine dai capelli sino ai piedi”, e ansimando: “sembra proprio cercare il corteggiamento”.
Per un attimo Tom cedette la scena a Laura. Tommaso la guardava e deglutiva saliva accumulata in bocca, Stefano sentiva i muscoli erettori della pelle azionarsi, e Mauro distante osservava Nicola agitarsi per l’arrivo di Laura.

Fa la cosa giusta
Passate le 3.00 del mattino può dirsi che la notte volge verso l’aurora. A quell’ora Tom si godeva i complimenti assembrati degli invitati e pur non capendo una parola ripeteva: “Thank you, oh yeah, yes sir”.
Mauro decise che il momento di rivelare a Nicola i sentimenti sempre tenuti al sicuro nel suo scrigno era arrivato e si incamminò verso di lui con un po’ di apprensione. Voleva liberarsi del giogo emotivo che gli aveva da sempre impedito di esprimergli il suo amore.
Non distante Laura, ancora in preda delle emozioni provate durante la festa, decise che anche per lei era giunto il momento di rendere chiari a Nicola gli stessi sentimenti che a sua insaputa provava Mauro.
Laura arrivò per prima al traguardo di questa gara giocata dai due ma in solitario e sussurrò a Nicola di seguirla nel suo talamo.
Alla vista Mauro tramortì e per la prima volta in vita sua perse il controllo delle emozioni. Le parole sconce e le maledizioni fecero cadere angeli e demoni dal cielo, che non riuscirono più a sollevarsi in volo.
Laura e Nicola fecero giusto a tempo ad entrare nell’alcova che l’abito da sera di lei si sfilò come per incanto ed in un attimo l’intera vita trascorsa e futura passò davanti a Nicola, e l’istinto lo condusse a baciarla, le bocche come ventose, le lingue esploratrici e la saliva da un palato all’altro. E lei sciolti i capelli arcuò la schiena mentre lui la stringeva forte ghermendole i fianchi.
E l’amore ha l’amore come solo argomento.
Si lasciarono dopo venti minuti, lui uscì dalla porticina retrostante e risoluto corse verso la sua vettura.
Ma almeno altri sei occhi guardavano la porta di ingresso dalla quale nessuno uscì perché anche Laura uscì dalla porticina retrostante per raggiungere Nicola.
“Di corsa in Aereoporto! Farò due biglietti durante il viaggio e poi direzione Messico”.
“Ma Tom?! Gli devo la vacanza in Sardegna, che figura ci faccio!”
“Nessun rimorso! Noi due siamo personaggi delle sue storie! Grazie del concerto Tom, e vaffanculo”.
L’aereo atterrò prima a Madrid, poi a Mexico City ed infine ad Hermosillo nello Stato di Sonora. Nicola realizzò solo in quel momento d’aver anticipato il suo desiderio di fuggire, scoprì che Laura durante i suoi due anni nel New Mexico studiò il comportamentismo e lesse, sino ad innamorarsi, il romanzo utopico “Walden Two” venendo a conoscenza della esistenza di una Comunità nei pressi di Hermosillo che viveva seguendo le regole del Rinforzamento positivo. E Laura e Nicola all’ingresso della Comunità si meravigliarono a leggere “Positive reinforcement! With Behaviorism living is better!”.

Omaggi e riconoscimenti
Laura: Lauren Bacall
“Le città invisibili” di Italo Calvino
Tom Waits
K.C. & The Sunshine band
Donna Summer
Santa Esmeralda
Giovanni Maria Angioy
Raffaella Carrà
Fabrizio De André
Ivan Petrovic Pavlov
UWC College New Mexico
Beatrix e Bill
Le 5 opere d’arte cantate da Tom Waits
Walden Two “Utopia per una nuova società”
Comunidad Los Horcones
La Scienza del comportamento

Da: Le città invisibili di Italo Calvino

L’importanza di chiamarsi Galileo

La notorietà di Galileo Galilei è percepita a diversi livelli. Il primo per aver verificato sperimentalmente e poi divulgato la teoria copernicana eliocentrica in luogo di quella geocentrica “attraverso prolungate osservazioni e dimostrazioni necessarie”. Il secondo per il contributo al cambiamento culturale, nella spiegazione dei fatti di natura, attraverso l’uso esclusivo dell’indagine scientifica ed il rifiuto dell’esegesi teologica delle Sacre scritture, che gli è valsa la condanna del Santo Uffizio.
Sia il primo che il secondo livello interpretativo postulano, ma non lo evidenziano, il vero motivo per cui Galileo deve essere ricordato: Galileo fu il primo a comprendere il linguaggio della scienza, a comprenderne la struttura, a costruirne il metodo di ricerca che sopravvive ai giorni nostri.

Il linguaggio della scienza postula che il processo esplicativo avvenga attraverso l’uso di concetti che si stacchino dal mondo concreto attraverso l’enucleazione di proprietà e relazioni astratte, o detto meglio attraverso l’uso di predicati astratti entro modelli privi di interferenze, o modelli ideali.
Per poter unificare spiegazioni altrimenti inconciliabili Galileo rifugge dalle spiegazioni provenienti dell’esperienza del concreto, ove si palesano infinite e non dominabili interferenze e, eliminandole, introduce ipotesi esplicative realizzando un modello ideale.
La consapevolezza della necessità di passare da ipotesi esplicative provenienti dall’esperienza primitiva del mondo concreto ad ipotesi esplicative realizzabili entro un modello ideale costituisce la vera rivoluzione di Galileo.
Dare una spiegazione ad ogni fatto concreto significa spiegare il fatto nella sua unicità ed irripetibilità, il che implica l’impossibilità di unificare fatti che nella loro concretezza possono apparire diversi ma che possono presentare proprietà e relazioni comuni intercettabili solo con il processo di astrazione.
Il processo di astrazione avviene concettualizzando proprietà e relazioni caratterizzate da un sistema linguistico di grado superiore che, distaccandosi dal concreto, consentono l’unificazione di differenti ipotesi entro un unico insieme esplicativo più ampio e significativo.

Galileo fu il primo ad ipotizzare una unica legge del moto dei corpi realizzando un esperimento su un piano perfettamente levigato, quindi eliminando al limite le interferenze. Constatò che un corpo, in assenza di una forza che agisca su esso, rimane fermo o si muove costantemente.
Postulare il predicato “moto in assenza di interferenze” ha consentito a Galileo di realizzare un processo di astrazione e unificazione di ipotesi prima inconciliabili.
Naturalmente l’ipotesi esplicativa è stata sviluppata da Newton introducendo il predicato più astratto di “gravità”, ma rimane valido il metodo di ricerca galileiano.

Prima della spiegazione unificatrice di Galileo le ipotesi basate sulla esperienza dei sensi, sulla intuizione, sulla metafisica e poi sul rispetto delle Sacre scritture prevedevano tre tipi di moto:
• Il primo era il moto dei corpi sulla superficie terrestre secondo il quale il moto era causato dalla presenza di una forza che agiva sul corpo;
• Il secondo era il moto dei corpi che cadono sulla terra secondo il quale i corpi sono attratti dalla terra perché al centro dell’universo;
• Il terzo era il moto dei corpi celesti, di natura diversa dai corpi terrestri, che differiva in ragione della sfera in cui il corpo si muoveva sino alla sfera celeste del primo mobile, cioè quella delle stelle fisse, di natura teleologica e da cui tutto aveva inizio.

Sono responsabile delle asserzioni, degli errori e delle omissioni ma mi corre l’obbligo riferire della lettura di “Il problema del metodo nella sociologia” di Giulio Bolacchi, Studi di Economia, 1972.

Goo!

“Rubai il ragazzo a mia sorella. Fu tutto un turbinio caldo e accecante. In una settimana ammazzammo i miei genitori e imboccammo la strada”.

Sabato 22 ottobre 1977, h. 11.00. Punta Arenas, Patagonia, Cile. Nel profondo sud dell’America meridionale.
“Cara, ricordati di prendere Maria all’uscita da scuola”.
“Certamente Antonio, tu affrettati altrimenti oggi il ristorante apre tardi e facciamo una magra figura con i clienti”.
Assunta e Antonio genitori modello per Maria e gli abitanti di Punta Arenas.
Ferdinando Magellano non poteva sapere che lo stretto ove si affacciava la cittadina si sarebbe trasformato da rotta mercantile transoceanica in rotta turistica internazionale.
La serranda sollevata da Antonio ed ecco il dehors del ristorante: una terrazza con vista mozzafiato sullo stretto di mare tra la Isla Grande de Tierra del Fuego e l’Isola di Dawson.

Sette anni prima, la domenica del 25 ottobre 1970, h. 17.00. San Diego, California. Una famiglia di maleducati.
“Arriverò per primo, sorpassami se sei in grado”.
A dispetto ad arrivare per prima fu Felipa, affannata: “Il nostro amore sarà infinito”. Un lungo abbraccio tra Felipa ed il fidanzatino, con il quale era cresciuta, che lavorava nella stazione di servizio perché non aveva voluto proseguire negli studi.
“Papà traffica con i dollari da un pò di tempo, l’ho visto depositare banconote, molte banconote, in soffitta”.
Felipa la sera a cena avrebbe presentato alla famiglia Antonio, il bravo ragazzo che la accompagnava da tre mesi. Non prima d’aver baciato l’altro bravo ragazzo come fosse la prima volta, da tre lustri unico perno segreto della sua vita. Ma questo suo lato oscuro era rubricato tra le faccende privatissime. I fidanzati ufficiali che si erano susseguiti nel tempo duravano quanto l’umore di Felipa, e Antonio apparteneva ai tipi.
Antonio era un giovane delinquente che non aveva mai imparato a comportarsi, mostrò il suo lato buono attraversando l’uscio di casa puntuale per la cena: “Signora, cucina i migliori spiedini degli States!” mentre Carlos, un cane chihuahua, si divertiva a correre negli spazi liberi tra le gambe sotto il tavolo.
“Sei un bravo ragazzo Antonio, educato, il viso è rasato e poi chiaccheri”. E Antonio, sorridendo, “Avete letto i giornali? Sembra che Annie Cooper non trovi accoglienza negli alberghi”.
“Troverà un giaciglio nella brughiera” – “Papà sei un razzista” – “Che dici, cerco di conciliare l’intransigenza degli albergatori con il bisogno di Annie Cooper” – “Papà sei un razzista” – “Si, si razzista” – “Che diamine, non urlatemi addosso, dico come la penso perché penso e poi dico”.
Accesa discussione mentre Assunta, sorella di Felipa, allungando una mano sotto il tavolo accarezza la coscia di Antonio: sussulto, brividi e un pensiero “Che cazzo sta facendo”. Lo sguardo di Assunta che chiede complicità ad Antonio, Carlos che ringhia e Felipa, papà e mamma intenti in grandi discussioni a parlare del giaciglio di Annie Cooper.

Lunedì 26 ottobre, h. 11.00. Incontro a luci rosse.
“Sono più brava di Felipa, dimmi di si!”.
Antonio perso e trascinato dai sensi. Rosso, in affanno, subisce le manovre di Assunta che glielo prende accovacciandosi sopra. “Fare l’amore in clandestinità è rischioso ma eccitante, papà al lavoro, mamma a fare la spesa e Felipa a seguire lezioni all’università. Dopo la High school ho vagato nella narrazione Hollywoodiana, avrei voluto fare l’attrice ma riuscii solo a frequentare una scuola di recitazione a Los Angeles. Alcune comparse e rientro a casa, in attesa di tempi migliori. Per il momento senza arte ma interpreto bene la parte di chi fotte i ragazzi di mia sorella, senza neppure la fatica di cercarli. Ed ora è il tuo turno Antonio!”.

Martedì 27 ottobre, h. 15.00. Di rientro dal lavoro.
Antonio seduto nella sua Cadillac Sixty Special attende fronte casa.
“Ciao Antonio, stasera starai con noi?”. “Grazie, alla prossima. Con Felipa e Assunta andremo all’ippodromo a Tijuana e per cena ho prenotato all’Agua Caliente”.
“Corri, corri, corri bastardo di un ronzino. Porca puttana stai fottendo i miei mille dollari”.
Al Casinò le puntate sprecate: “Felipa al prossimo giro punta tu, io accompagno Assunta a prendere un po’ d’aria e rientro subito”
“Mmmmh! Ooooh! Yeaah!”.
E altri mille dollari persi la sera al Casinò.

Mercoledì 28 ottobre, h. 13.00. All’uscita da lezione.
“Ieri Antonio ha perso duemila dollari, in un pomeriggio ha buttato tre mesi di lavoro!”.
“Conosci la sua famiglia?”. “No, mi ha promesso che me li presenterà presto”.
Uno sguardo perplesso indirizzato verso Felipa, le mani si strinsero al collo e un bacio le sfiorò la guancia.

Giovedì 29 ottobre, h. 11.00. Il cielo è terso.
La calda giornata ottobrina merita l’ultima abbronzatura al mare, sulla battigia una schiuma cremosa prodotta dalle onde.
“Sai, quel razzista di papà lavora come transfrontaliero a Tecate”.
Da tempo Assunta osservava il padre trasportare valige cariche verso il Messico e valigette rientrare dal Messico. Nessuno poteva sospettare che la cocaina seguisse il percorso inverso rispetto a quello usuale. In dogana niente controlli, solo saluti e convenevoli, d’altronde nessun doganiere si era posto la seguente domanda: da quando la cocaina arriva dagli States e transita verso il Messico?
“Per trent’anni ha fatto il bravo, ora che in dogana tutti lo conoscono ha deciso di fare il corriere della cocaina. Quel brutto figlio di puttana la mette nel culo agli States, guadagna un sacco di soldi sporchi e con noi finge. I contanti non può riciclarli velocemente e usa il sottotetto come deposito di banconote”.
“Ma quanti dollari nasconde?”.
“Tanti quanti i ratti nelle fogne di San Diego”.
“Io fiuto i dollari e brucio i ratti, porca puttana ci prenderemo quei fottuti soldi e partiremo per Punta Arenas, in Patagonia”.
Una improvvisa vampata pervase il corpo di Assunta: “In ogni dove tu voglia andare, fai in modo che sparisca la fitta infernale che sento quando vado a letto coi sogni già morti la mattina. Sto scoppiando, ho una gruviera come cervello”.
“Faremo esplodere un vulcano a casa tua, fuoco, cenere, tutti morti”. Le parole e la voce vibrata di Antonio predicavano una intenzione perversa.
“Domani, a lavoro finito, faremo come i fuggitivi e la tua Cadillac correrà e sorpasserà. Misurerò il tuo coraggio, voglio arrivare a Punta Arenas prima che si ricordino di noi”.
Antonio la sera passò dalla stazione di servizio e chiese che quattro taniche da un gallone fossero riempite di carburante: mai farsi servire da uno sconosciuto!

Venerdì 30 ottobre, h. 21.00. Burning out.
Vortice e bruciore, un vespaio annidato dentro gli stati mentali di Antonio fedifrago e succube di Assunta. Strafatti di cocaina.
Carlos si avvicina e si struscia, un calcio e prende il volo, il braccio si allunga e l’occhio si chiude: bum! E il corpo inanimato di Carlos giace per terra.
Blam! La porta spalancata: “Fuckoff papà, crepa”. Bum! E una galleria si apre nello stomaco! Per la mamma nessun grilletto: collassata dallo spavento.
Felipa per ultima, stordita, non fa a tempo a meravigliarsi della coppia diabolica. Presa, nastrata in bocca e legata al piede del letto. Brucia, baby, burn!
E tutta la casa in fiamme. Assunta e Antonio dall’altra parte della strada guardano le lingue di fuoco arancioni e rosse sorridendo. Poi sintonizzando la stazione radio imboccano la Interstate 8 direzione Casa Grande.
Soldi, soldi. Con centomila dollari in banconote partire dagli States ed arrivare a Punta Arenas solo faticoso.
I passaporti contraffatti e vita nuova.

Sette anni dopo, il sabato del 22 ottobre 1977, h. 12.35. Ristorante di Punta Arenas. La regola del contrappasso.
Una quarto di vino nero nella bottiglia sul bancone, forse lasciato da qualche avventore la sera prima, l’occasione colta ed il vino tracannato per soddisfare intensamente il palato.
Quattro taniche da un gallone sopra un tavolo. Antonio attraversato da un pensiero sinistro mentre un bossolo a forma conica gli trafigge la nuca. Che dolore! La mano corre dietro veloce ma tonf! Morto.
Dieci minuti più tardi Assunta e Maria entrano nel Ristorante: “Sembra il ragazzo della stazione di servizio di San Diego. Che diavolo, San Diego non è nient’altro che un punto nella strada. Ciascuno in quella città marcia aveva un piede nella fossa, per questo ho preferito tentare la sorte a Punta Arenas”.
Ma il cono di piombo della Remington 1858 esplode e la raggiunge nella fronte finito giusto il suo pensiero.
La piccola Maria stordita fugge verso il dehors, vede il padre steso sul pavimento e lo Stretto di Magellano di fronte, osserva il ristorante e le lingue di fuoco arancioni e rosse che sembrano scrivere “Bruciate all’inferno”. Del ristorante rimase solo la cenere.

Frasi, furti e riconoscimenti:

“Per chi sa estrarre la melodia dalla distorsione”: Goo, Album dei Sonic Youth, 1990. Foto di copertina.

“Gli anni selvaggi di Frank”: Frank’s wild years, da Swordfishtrombones, 1983 di Tom Waits.

“Amo le belle melodie capaci di raccontarmi storie terribili”: Burma Shave, da Foreign Affairs, 1977 di Tom Waits.

Le avventure del Principe Federico e di Cristina Lorena Granduchessa di Toscana

Conducimi intrepido nel tempo sospeso e sempre tua sarò.

L’inizio
Fecero la conoscenza e si piacquero subito. Entrambi dipendenti della stessa multinazionale, Cristina Lorena Responsabile del settore “Ricerca nuovi mercati” e Federico a Capo del progetto “Identità aziendale”.
La programmazione periodica degli incontri identitari li fece casualmente incontrare.
La storia iniziò al secondo incontro.
“Ti sei fatta crescere i capelli?”. “Forse mi confondi con qualcun’altra”. Federico sentì un tuffo al cuore, non voleva passare per gaffeur: “Accipicchia, con tutte le ragazze che incontro!”. Prese la parola e iniziò a parlare, Cristina Lorena pensava: “Che piacere poterlo ascoltare”.
Federico si accorse dell’attenzione che lei gli riservava e ne fu felice.
Al termine bevvettero un thè caldo seduti al tavolino del bar.
Federico la ascoltava: racconti avventurosi sembravano provenire da tempi lontani, di come ci si sente piccoli in mezzo alle balene o persi nel deserto del Sahara a sud di Tamanrasset.
Infine in sinossi e nei particolari la osservava di guisa che l’udito e la vista procurassero piacere epidermico assente da tempo immemorabile.
Si diedero appuntamento per la sera al

Shakespeare bar.
Entrarono nel locale, Federico ruppe il ghiaccio “I tuoi racconti sono avvincenti, come quando vendesti il passaporto per prolungare il soggiorno in Messico”.
Gli sguardi si incrociarono e le labbra parlarono: “Fu coinvolgente, in quel periodo ebbi una relazione complicata con un indigeno ramingo e per stargli appresso vendetti il passaporto. Tra Mezcal e Peyote ho rischiato di friggere i neuroni. Mi recuperò un’amica giusto prima della deriva”.
Un’aura di confidenza stava sorgendo, le rotule si sfiorarono, l’incrocio degli sguardi un attimo più duraturi.
“Raccontami di te”.
“Ho solo difetti e godo a leggere e guardare ciò che mi emoziona”.
“Ecco, ora capisco, io vivo le emozioni e tu ti emozioni ad osservarle. Che ne dici di passare il guado per viverle anche tu? Ti propongo un cambio di dimensione, da spettatore ad attore”.
L’incastro delle chiavi asimmetriche si compì.
Il sentimento d’attrazione crebbe assieme all’insicurezza, pensò: “E se sto fraintentendo?”.
Domanda inopinata: “Sei impegnato? Sei libero?”.
La saliva deglutì: “In che senso!”.
“In tutti i sensi! Io e te camminando sul filo del rasoio lungo spazi immensi e tempi perduti. Io e te”.
Lui a casa la riaccompagnò, la porta del talamo si chiuse ed il tatto, l’olfatto ed il gusto esultarono lasciando in subordine la vista e l’udito.
Da quel momento la vita fu emozionante e niente più come prima, erano come i girasoli, avrebbero avuto bisogno di molta acqua per tenere salda la

Tenerezza reciproca.
Presero un anno di congedo dalla multinazionale. Chiamarono il loro viaggio “Global challenges” perché si trattava di una sfida estrema.
“Siamo pronti?”.
Partirono clandestinamente, solo Cristina Lorena conosceva la destinazione. Percorsero tragitti secondari e poco battuti.
Comprese solo alla fine di trovarsi in un’area fredda e dispersa distante dal mondo civilizzato. Dopo giorni di viaggio in treno, autobus e lunghe camminate lesse Roбirок che Federico tradusse con

Robyrock.
Era autunno solo per il calendario. Per gli indigeni freddo, neve e bufere. Il fiume lastrato di ghiaccio poteva reggere il peso di un TIR. Gli abitanti di Robyrock erano tipi abituati a resistere alle avverse condizioni meteo in quanto bevitori di дbbдrdente, alcool ad altissima gradazione e dagli effetti psicotici. Perennemente ubriachi e fuori di senno parlavano un idioma incomprensibile: “Ebuffдndesese!”, “Rдуudecдllдdд!”, “Ingùrtiudдsi!”. Era una lingua con repertorio vocale sufficiente per la sopravvivenza, che Cristina Lorena parlava e capiva perché postera di indigeni.
Cristina Lorena era di casa a Robyrock e la capacità di adattamento la rendeva identica agli avi, per cui perennemente ubriaca parlava con tutti: “Eitenovдs?”, oppure ridendo “Seuscrдccдiendi!”. Il tono idiomatico poteva essere esclusivamente perentorio o interrogativo, escluse altre tonalità.
Ogni sera partecipava a riunioni della durata di ore, arrivava ubriaca e ne usciva in stato ipnotico. Federico non poteva partecipare e nemmeno chiedere degli argomenti discussi. Cristina Lorena rientrava a notte fonda parlando l’incomprensibile idioma che però, all’occasione, si faceva capire bene: “дjòsticchitдppunдu!”. Poi la notte trascorreva tra carezze reciproche.
Dopo un mese di riunioni notturne e sempre ubriaca Cristina Lorena gli comunicò: “Stanotte verrai con me. Qualsiasi cosa tu possa pensare è vera, combatteremo per risalire la spina dorsale e riprenderci il mondo che abbiamo sempre sognato”.
Entrarono dentro la casa e tre uomini e tre donne incensarono Cristina Lorena e Federico con aromi in tutto il corpo, il rito terminò a notte fonda dopo frasi mistiche e bevute alcoliche, la consegna di due stiletti e il comando pronunciato all’unisono:

“Bдgei!”.
Quale ordine ricevettero prima del comando non è dato sapere. È certo che si diressero in catarsi verso il fiume ghiacciato e si tuffarono dentro il buco scavato nel ghiaccio. Un vortice li risucchiò e furono espulsi dal fiume Tevere vicino all’isola Tiberina nella città di Roma.
Con la borraccia di дbbдrdente e lo stiletto nascosti nei jeans cercavano un luogo ove ristorarsi “Ti è piaciuta Robyrock?”. “Si, a parte l’idioma indecifrabile, e i dubbi, i forse e le fragilità che non sono contemplati in quella strana lingua. Come traduci “Non ho ancora deciso se baciarti”.
“L’istinto di sopravvivenza ci ha insegnato a non temporeggiare, di conseguenza gli atteggiamenti o gli stati latenti si sono estinti. Quindi o ti faccio la domanda o ti dichiaro le mie intenzioni”. “ДSeupenzendidдntiimpiccдu!.
Trovarono il posto di ristoro. “Coraggio! Entriamo nei personaggi. Libereremo Giordano per difendere la libertà dall’oscurantismo”.
Entrarono in una locanda affollata nei pressi di Piazza San Cosimato, i clienti a distanza di gomito.
Mangiarono, bevvero e parlarono a voce alta per farsi sentire: “Una società moderna non può abbracciare il principio della Verità rivelata e prostrarsi alla esegesi delle Scritture fatta dai dottori”.
All’uscita uno sconosciuto sopra un cavallo, sembrava sovrappensiero ma in realtà osservava Federico e Cristina Lorena, il tempo dello sprone e si lanciò verso i due: il primo fu travolto, la seconda con riflesso veloce spinse uno scooter contro il quale il ronzino andò a sbattere. Il cavaliere catapultato e Cristina Lorena per non saper né leggere e né scrivere pensò bene di misurare con lo stiletto la distanza dello sterno dal cuore.
Federico notò che lo stivale dell’ignoto cavaliere recava impresso il nome Lotario Sarsi e come emblema un disco raggiante e la sigla IHS.
Non fecero a tempo a sistemarsi che quattro energumeni gli furono sopra, calci e pugni sufficienti per ammansirli. Incappucciati e ospitati in un Palazzo romano a

Sbollire.
“Chi siete? Per quale motivo soggiornate a Roma?”.
“Siamo turisti in visita alla città”.
Paff! Lo schiaffo sferzato con mano aperta non conosceva galanteria.
“Perché vi interessate di Dottori e di Scritture?”.
“Scriviamo copioni per il teatro”.
Un calcio piazzato sui coglioni e Federico godette di dolore “Ooh!”
“Rimarrete nostri ospiti sino a che sarà necessario”. L’anfitrione indossava dei jeans con l’emblema del disco raggiante e la scritta IHS.
Il giorno successivo la stessa persona proseguì l’interrogatorio “Non avete lasciato tracce dal vostro arrivo il che significa che siete avveduti. Ve lo chiedo nuovamente: perché in locanda avete affrontato il tema delle Scritture?”.
“La persona di sua fiducia che ha rubato le nostre chiacchere ha frainteso, la parola Scritture era riferita alle commesse di copioni teatrali ai quali stiamo lavorando. Con chi abbiamo l’onore di parlare?”.
“Qui il mio nome non rileva, ognuno indossa una maschera”.
Federico lo incalzò: “No! Noi non ne indossiamo alcuna! Coloro che indossano la maschera o sono persone vili che sotto quella vogliono farsi stimare gentiluomini. Oppure sono gentiluomini che mettendo di lato, mascherati, il decoro richiesto al loro grado, prendono licenza per parlare senza rispetto”.
Crash! Una sedia si sfasciò sopra un tavolo ferito.
Un foglio di carta prese il volo e si posò vicino a Federico che lesse l’intestazione “Orazio Grassi” sotto all’emblema già noto.
Lo sguardo d’intesa decretò che Federico e Cristina Lorena avevano imboccato la

Giusta strada.
Rimasti soli Cristina Lorena raccontò, ad alta voce: “È necessario affrancare il pensiero umano dalle interpretazioni teologiche delle Scritture per sconfessarle e relegarle al rango di Verità di fede distinta dalla Verità di scienza. Il mio amico Galileo mi scrisse una lettera nella quale mi spiegava che le meraviglie della scoperta attraversano prolungate osservazioni e dimostrazioni necessarie, evidenziando come l’intenzione delle Scritture sia d’insegnare come si arriva al cielo, e non di spiegare il cielo”.
Poi proseguì: “Nella medesima lettera sottolineò come le accuse contro la verità di scienza si facciano scudo delle Scritture per farle ministre, con siffatta autorità, di maldestre conclusioni riguardanti la natura oltre che la fede”.
Avesse continuato avrebbe pianto.
Le cimici registrarono il racconto di Cristina Lorena e la prova del loro intento sedizioso fu trascritta nei verbali del Sant’Uffizio.
Il giorno seguente Orazio Grassi con pacatezza ordinò il loro trasferimento nella cloaca della redenzione al piano sotto quello di terra.
La cloaca riceveva i rifiuti organici e domestici degli abitanti del palazzo e disponeva dell’unica via di uscita appellata “Cammino della redenzione” perché andava dritta al salone delle udienze del Sant’Uffizio per consentire ai penitenti l’abiura ed agli impenitenti la condanna a morte.
Cristina Lorena e Federico compresero subito di essere nella melma sino al collo e si concentrarono per cercare una soluzione.
“Se non vogliamo morire dobbiamo trovare una via di fuga per liberare

Giordano”.
Nomen omen. Il nome dato alla prigione, “Cloaca della redenzione”, corrispondeva al vomitevole effluvio di residui organici e odori nauseabondi. I vermi passeggiavano sugli escrementi e i batteri, i funghi e i lieviti facevano a gara per riprodursi. Una malsana aria satura segnava una temperatura calda e umida più nociva di quella equatoriale già provata da Cristina Lorena in una precedente avventura alla Caienna nella Guyana Francese.
Gli sguardi si incrociarono, il tempo d’agire era arrivato. La borraccia di дbbдrdente e lo stiletto ancora disponibili.
Percorsero il cammino della redenzione e annunciarono al primo energumeno di guardia l’intenzione di abiurare.
Orazio Grassi arrivò: “Che l’abiura avvenga presso la Congregazione del Sant’Uffizio alla presenza dei cardinali generali inquisitori.
Sino all’abiura rimangano zozzi come è zozza la filosofia della Nuova Scienza”.
La prigione cui furono condotti in attesa del processo era affollata da altre persone. In poco tempo ebbero la certezza della presenza di Giordano e del giorno della pronuncia della sentenza: 8 febbraio.
Chiesero di poter abiurare il medesimo giorno.
Mercoledì 8 febbraio il cardinale inquisitore generale Lucio Sassi incalzava Federico e Cristina Lorena: “Ci sono espressioni della Sacra Scrittura e delle tradizioni ecclesiastiche del magistero autentico del Papa e dei vescovi, che considerano la natura figlia del Disegno divino e che la Chiesa cattolica ritiene non disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione di Dio”.
Cristina Lorena rimase scossa e pensò “Ecchecazzo!”, e lo ripensò una seconda volta perché sicura che nessuna divinità e alcuno dei presenti poteva leggere i suoi stati mentali. Difatti tutti i cardinali inquisitori rimasero immobili come statue.
Vide Giordano seduto in prima fila, vide Federico seduto di fianco e gli sorrise, con scatto felino prese la borraccia e deglutì l’дbbдrdente, con l’altra mano sfilò lo stiletto e tracciò una linea retta ma profonda nella gola di Lucio Sassi.
A Orazio Grassi decapitò lo scroto mentre iniziò a cantare:
“Libera me Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda. Quando coeli movendi sunt et terra: dum veneris judicare saeculum per ignem”.
I cardinali inquisitori come pietre, gli energumeni uccisi o feriti dall’affilatissimo stiletto di Cristina Lorena che mentre colpiva urlava “Etдndo! Unu! Dusu! Trese! Bдttero! Chimbe!”.
In un nanosecondo Federico afferrò Giordano per il collo della camicia, si ritrovarono per strada nella direzione fiume Tevere Ponte Sant’Angelo. Da lì si buttarono ed un vortice d’acqua li risucchiò per l’espulsione dallo stesso buco del fiume ghiacciato di Robyrock.
Giordano tornò libero di predicare l’universo infinito.
Cristina Lorena e Federico rientrarono nei rispettivi ruoli di responsabilità aziendale.
Una notte Federico si svegliò di soprassalto e, non riuscendo a riprender sonno, si emozionò a guardare i bei capelli lunghi di Cristina Lorena, il bel viso, la sua bocca ed i suoi fianchi.
Svegliò l’amata e le disse: “Sesbellдcomenteunufroreinberдnu” (Sei bella come un fiore in primavera)”.
Anche lei si emozionò e sciogliendosi gli rispose: “Toccддllonghiдsдmдnu” (Abbracciami forte)”.

Omaggi e Riconoscimenti
Galileo Galilei.
Federico Cesi, principe, fondatore dell’Accademia dei Lincei, amico e sostenitore di Galileo.
Cristina di Lorena Granduchessa di Toscana, moglie di Ferdinando I de’ Medici, protettrice di Galileo con cui ebbe scambi epistolari.
Giordano Bruno.
Everything you can think of is true, di Tom Waits.
Libera me, Domine. Canto gregoriano ripreso dai CCCP Fedeli alla linea.
Liberamente estratto da: nota verbale della Segreteria di Stato Vaticana del 17 giugno 2021 allo Stato Italiano.
Liberamente estratto da: Il Saggiatore di Galileo Galilei, 1623.
Liberamente estratto da: lettera di Galileo a Madama Cristina di Lorena Granduchessa di Toscana del 1615.

Dedica
Il breve racconto è specialmente dedicato a coloro che hanno amato Giulio Bolacchi.

Le amiche di Anita

Nella finzione si maneggia l’indistinto e tutto si fonde e la vendetta è un piatto che si consuma velocemente. (Non accarezzate con dita delicate la pelle della vostra amante).

Gli 88 folli, o The Crazy 88s per darsi un tono internazionale, pretendevano per Anita una programmazione memorica che prevedesse una risposta per ogni imprevisto.
Non potendo definire le infinite schede di risposte ad ogni possibile imprevisto ebbero una intuizione: programmare schede adeguate alla complessità di grado “n”. Con ciò lo stimolo ambientale veniva qualificato a livello astratto determinando connotati cognitivi declinabili verso livelli di complessità inferiori fino a giungere agli infiniti livelli di grado “0”, ovvero alla infinita concretezza del reale. Era nel reale che Anita apprendeva e, attraverso l’azione di feedback, implementava il quadro cognitivo.
Le variabili dipendente ed indipendente erano tra loro reversibili e si nutrivano a vicenda.
La relazione tra Anita e la scheda di grado “n” era semplice e diretta e solo per via mediata collegata alle infinite schede di grado “0”. E’ per questo motivo che Anita era leggèra ed indistinguibile dai suoi omologhi umani.

Creazione
Anita era stata messa al mondo dal club degli 88 folli, anche se in realtà il numero dei folli non era definito. A capo degli 88 folli Johnny Mo, che trascorreva le giornate al Lounge Bar del 37° piano del Grattacielo Intesa di Torino, giusto tre piani sopra l’appartamento di Anita.
Anita disponeva di un repertorio cognitivo le cui azioni erano guidate dalle conseguenze ambientali apprese. Lo stesso modello d’apprendimento dei suoi omologhi umani.
La scala delle abilità era però inversamente proporzionale all’ordine della creazione: Anita, l’ultima creata, era più in gamba dei suoi creatori.
Una sorta di principio di transitività gerarchico ma invertito in cui le conoscenze dei creatori erano confinate entro l’insieme cognitivo del creato.
Oggi insegnava Pianoforte al Conservatorio ed era sua convinzione essere fatta della stessa materia delle persone che frequentava.

Piazza CLN
Il buio dopo la mezzanotte inquieta perché è profondo e l’alba è lontana, se poi la pioggia cade copiosa ed il vento soffia sferzante allora la notte profetizza sventure. La serata scorreva presso il Jazzy bar, che visto dall’angolo della piazza rassomigliava al “Nighthawks” di Edward Hopper. Anita, appoggiata al bancone con vista verso la statua del Po godeva all’ascolto di “Warm beer and cold women” suonata al pianoforte da una giovane amica stravagante, e poteva metterci la mano sul fuoco, altrimenti non la avrebbe frequentata!
Carla era impegnata a spiegare a suon di musica di come la sfiga possa farti incontrare donne fredde ed allo stesso momento farti bere birra calda, quando dall’ingresso del Jazzy partì un colpo che fece del suo viso uno sgradevole cocomero senza più occhi né cervello.
Anita pensò istintivamente a proteggersi e si rannicchiò sotto il bancone, repentinamente si avvicinò al cadavere di Carla, e con occhio teso volse lo sguardo verso l’ingresso privo di esistenze. Iniziò a sentire il peso di quanto accaduto: lo sparo, la morte.
Avrebbe voluto inseguire l’omicida, ma da che parte? Piazza Castello, Porta Nuova, Politecnico, Porta Susa… “Ma verso quale cazzo di parte vado?”.

Depressione bipolare
Anita pesava le esperienze con la stadera sentendosi addosso le emozioni. Per una settimana non uscì di casa, aveva bisogno di elaborare il lutto.
Le giornate trascorse a constatare il tempo che scorre con scarpe e indumenti da lavare buttati dappertutto. Pile di stoviglie sporche sul lavandino, puzza di sudore e desiderio di tenere la testa poggiata per sempre sul cuscino dichiaravano la vittoria dell’astenia.
Ma era sufficiente che il pensiero volgesse oltre le mura casalinghe per recuperare le energie. Pensava: “Carla era solo stravagante esteticamente e il suo cuore grondava bontà. E allora why?”
Il telefono squillò, dall’altra parte Roberta parlava dell’incomprensibilità di quanto accaduto. Sosteneva la tesi di uno scambio accidentale di persona o di un omicidio a scopo pedagogico. “Pedagogico per chi?”. Infine poteva anche darsi un omicidio casuale stante l’assenza di movente. Insomma qualsiasi ipotesi poteva essere giusta aut sbagliata.
“Il vissuto di Carla era cristallino e privo di macchie, nessun conflitto. Chi poteva avere interesse ad ucciderla?”.
Dalle profondità dell’apparecchio telefonico giungeva “Summertime” interpretata dalla Fitzgerald, probabilmente era Antonia, la compagna svalvolata di Roberta e più perché mica aveva l’esclusiva, che aveva appoggiato il vinile sul piatto.
Antonia agente della squadra mobile, ordinata durante l’orario di servizio ma ad alto tasso entropico nella vita privata, urlò: “Anita vieni da noi a cena! Poi magari ci sfidiamo a Triello!”.
Anita sentiva il bisogno di riaffacciarsi al mondo e accettò l’invito. Si presentò con una bottiglia di Vernaccia sarda invecchiata ed un vassoio di dolci di mandorle da consumarsi per l’apericena. Nessuno si filò il regalo ma solo perché gli fu riservato l’onore del dopocena.
Quel vino color oro ambrato andava servito in bicchieri piccoli e ingoiato d’un sorso con subitaneo cenno del capo, a seguire l’immediato morso del dolce. Il protocollo per gustare i sapori fu rispettato e i tre palati fini poterono godere dell’elevato grado alcolico e dell’appena percettibile gusto d’amaro.
Al primo giro seguì il secondo, poi il terzo e così sino al quinto, terminato il quale Anita, Roberta e Antonia erano capaci di affrontare qualsiasi argomento.
“Domani torniamo al Jazzy bar”, “E chi suonerà il pianoforte?”, “Porca troia, chi se ne fotte della pianista, farò io il concerto”.

Il Triello
Le tre amiche si distesero sul divano per riposare ma, passati pochi secondi, Antonia sfiorò Roberta come a caso e con aria imbarazzata allungò le dita dell’altra mano verso il bosco di Anita. Elogio alla tensione, tranquillità assoluta, un rapimento, un’estasi sul punto delicato. Il gioco del Triello iniziò, un grande sogno nitido accarezzò ciascuna pelle con dita da barbiere. Un’amorosa quiete, un’amorosa quiete.
La notte successiva Anita e Roberta si recarono al Jazzy e puntarono la bargirl per intervistarla. Non ne cavarono granché: riferì di autovetture, moto, signorine e signore che entravano e uscivano dal locale e del killer che indossava un casco da motociclista.
La sala era piena: tre giovani fighette bevevano al bancone e buttavano sorrisi verso tre signore disponibili, una maleducata discuteva di lavoro al telefono, una femme fatale parlava con una donna in abito che l’appellava con il nome di Sofie. Anita prese possesso del pianoforte e interpretò “Dal loggione” di Paolo Conte.
Antonia, non autorizzata dal proprio dirigente, principiava autonome investigazioni. “Dalle telecamere nulla di particolare, in Piazza CLN autovetture, moto e persone che attraversano il passaggio da e verso Piazza San Carlo. Il killer ha parcheggiato una moto di grossa cilindrata fronte ingresso e in pochi secondi è entrato ed uscito”.
Di rientro a casa Anita, setacciava i ricordi ordinandoli inconsapevolmente al grado “n”, ma nessun indizio si rivelò perché i tempi erano ancora acerbi. Intanto memorizzò tassonomicamente i fatti e li archiviò nello spazio memorico dormiente.
Zaira e Ylenia erano due amiche che Antonia amava sfidare a Triello. A Zaira ed Ylenia piacevano i giocosi esercizi acrobatici sino allo sfinimento per amorosa quiete. Durante il gioco riponevano tutto l’impegno per accarezzare la pelle dell’altra con dita da barbiere.

Inferenze
“Se Anita è amica di Antonia e se questa lo è di Zaira ed Ylenia, allora anche Anita lo è di queste due”. Anita sorrideva pensando che il ragionamento poteva pure avere una validità logica ma non reggeva ad una verifica fattuale, in quanto nelle sensate esperienze il predicato “amicizia” non poteva avere una connotazione definita e intersoggettiva ma esclusivamente soggettiva. E nel suo caso concreto la transitività reggeva!
Mentre Anita speculava sulla transitività, a casa di Antonia, Roberta pregustava l’idea di guardare “Le fate ignoranti” con la proprietaria di casa che cantava a squarciagola “Che coss’è l’amor”.
“Le pizze sono arrivate!” disse Roberta che non fece a tempo ad aprire il portoncino che il calcio di una pistola le fece perdere i sensi, in sequenza il Killer sparò al petto di Antonia che cadde come una pera matura. Poi tornò verso l’uscio e sparò alla testa di Roberta, prese le falangi delle due mani e con una cesoia le tagliò. Stesso lavoro con le falangi di Antonia, infine fuggì.
Per Anita il secondo tonfo fece più sconquassi, pensava seriamente che anche lei potesse essere un obiettivo e rimase chiusa in casa cercando di trovare un movente per le tre amiche uccise. Sentiva una malvagia forza centripeta avvicinarsi.
Non riusciva a trovare un nesso causale a parte le amicizie e questa poteva essere una strada da percorrere.
Pensò di condividere il presentimento con Zaira ed Ylenia recandosi a casa loro.
“Ciao Zaira come state? Se mi offri una tisana passo questo pomeriggio”.
Arrivò nella villetta ubicata oltre Po nel quartiere di Borgo Crimea. Una moto di grossa cilindrata era parcheggiata non lontano.
“Jazzy!?”.
Anita si trasformò in serpente che deve sopravvivere nella giungla e decise di non rispettare alcun protocollo. Mise nelle tasche posteriori due pattadesi e fece il periplo della villetta. Fosse andata bene avrebbe fatto una figura di merda con le amiche ma bevendo una tisana, fosse andata male avrebbe affrontato l’incognito.
Anita entrò dalla porta del cortile, i corpi di Zaira e Ylenia giacevano sul pavimento della cucina, i crani divisi da una katana, mura imbrattate di materia cerebrale e venti falangi che facevano la loro porca figura sopra un piatto sul tavolo.
Vomitò e subito uscì fuori, il rombo del motore di una moto di grossa cilindrata la assordò.

Vendetta
Mille chiodi le si conficcarono in testa, lasciò scorrere i pensieri come in un brainstorming: Carla, Jazzy, Sparo, Triello, Casco, Moto, Stravagante, Roberta, Antonia, Falangi, Zaira, Ylenia cioè a dire il complemento di un insieme vuoto.
“Ok, ricominciamo: Carla, Roberta, Antonia, Zaira, Ylenia mie amiche e amanti del Triello, Click! Dita da barbiere, Click! Falangi, Click! Ma lesbiche, cazzo!”.
“Fanculo! Il movente è proprio pedagogico!”. “Is there anybody out there?”. La domanda era una supplica ai neuroni che computavano dentro il suo cervello: “Distàccatevi dalla realtà, rendete astratto il pensiero e attìvate una scheda inferenziale di grado “n”. È un ordine! merda!”.
“Ho compreso il movente ma non riesco ad arrivare al Killer” pensò, rientrando a casa.
Entrata in ascensore, giusto un attimo prima di premere Piano 34 per dirigersi verso il suo appartamento, il dardo le trafisse il cuore: “Carla, Roberta, Antonia, Zaira, Ylenia”. A quel punto l’indice premette Piano 37 direzione Lounge Bar, ove entrò puntando l’obiettivo che stava seduto sbracato sui divanetti, e senza fermarsi estrasse dalle tasche posteriori la prima pattadese che si conficcò nella gola di Johnny Mo mentre la seconda penetrò il bulbo oculare solo dopo che l’onda d’urto vibrò “Craaazy” urlato a squarciagola da Anita.
Per restituirgli la cortesia non rimase un secondo di più, e prenotando l’ascensore cominciò a cantare:
“Schizza la mente quando la si tende, si contorce, si espande. Se risucchiata ruggisce di dolore, di piacere. Calore che irradia in onde rotonde.
Gelo verticale, cunei sparati giù a frantumare. Del resto m’importa ‘nasega sai, ma fatta bene che non si sa mai”.

Omaggi e riconoscimenti
Città di Torino;
Profondo Rosso di Dario Argento;
Kill Bill Vol. 1 di Quentin Tarantino;
The Crazy 88s, “Gli 88 Folli” in Kill Bill Vol. 1:
Nighthawks at the diner, Album di Tom Waits;
Mi ami? dei CCCP Fedeli alla Linea;
M’importa ‘na sega dei CSI Consorzio Suonatori Indipendenti.

Tom Waits or Lost in translation

Ecco le mie traduzioni di alcune canzoni di Tom Waits. Un pò liberamente tratte, un pò frutto di ricerche, un pò Google traduttore e un pò con errori ma mie.
Ho già pronunciato l’apologia di Tom Waits e mi diverto a tradurre in prosa le sue canzoni perché è come vederne scorrere le immagini sullo schermo del cinema.
Sembra che Tom disse “I like beautiful melodies telling me terrible things”.
Non sempre Tom racconta storie terribili, ma racconta come la vita sia fatta di sudore ed esperienze e non di finzione, ed è anche bravo a raccontare storie d’amore.
E quando Tom miscela testi, voce e musica produce capolavori. Il migliore!
Buona lettura!

Cartolina di Natale da una prostituta di Minneapolis.
Tom Waits, Blue Valentine, 1978
Ciao Charlie,
sono incinta e vivo nella 9° strada sopra una sudicia biblioteca, lontano da Euclid Avenue. Ho smesso di drogarmi e anche di bere whisky.
Mio marito suona il trombone e lavora alle registrazioni. Dice che mi ama, anche se il bambino non è suo, e che lo farà crescere come fosse figlio suo. Mi ha dato l’anello che indossava sua madre e ogni sabato sera mi porta a ballare.
Oh Charlie, ogni volta che passo per una stazione di servizio penso a te e a tutto l’olio che ti mettevi nei capelli. Ho ancora il disco di “Little Anthony and the Imperials” ma, purtroppo, mi hanno rubato il giradischi.
Sei contento della mia nuova vita?
Charlie sto impazzendo, da quando Mario è stato arrestato sono tornata ad Omaha a vivere tra la mia gente. Tutte le persone che conoscevo o sono morte o sono in prigione. È per questo motivo che ora sono a Minneapolis e penso che ci rimarrò.
Sai Charlie per la prima volta dalla mia sventura penso d’essere felice, vorrei avere tutti i soldi che spendevamo in droga, mi comprerei tante auto usate e non ne venderei alcuna. Guiderei ogni giorno un’auto diversa a seconda del mio umore.
Charlie per amor di Dio, vuoi sapere la verità? Non ho un marito, non suona il trombone e ho bisogno di danaro a prestito per pagare l’avvocato.
Hey Charlie, forse mi concederanno la libertà vigilata per il giorno di San Valentino.

Dalla parte sbagliata della strada
Tom Waits, Blue Valentine, 1978
Metti un gatto morto sui binari della ferrovia quando il lupo piscia sui fiori della staccionata. E prendi il bulbo oculare di un gallo, le pietre di un fosso e lavali con l’acqua di fogna.
E dimmi che non farai mai la spia.
Prendi i bottoni da una giacca gialla e la piuma da una poiana. E prendi il sangue dal cuore nero dei cacciatori di taglie.
Cattura le lacrime di una vedova e versale in un ditàle di vetro.
Di a tuo padre e a tua madre che possono baciarti il culo.
Avvelena tutta l’acqua nel pozzo dei desideri e appendi quegli spaventapasseri a un sicomoro.
Brucia tutte quelle lune di miele, infilale nella federa e aspettami vicino al lanciatore di coltelli nel parco divertimenti.
Strangola tutti i canti di Natale, scordati tutte le preghiere, legali col filo spinato e buttali giù per le scale.
E ti tarerò una pistola per tenere lontano gli incubi che come stronzi sembrano sempre venir fuori da dietro i termosifoni.
Travasa tutta la benzina dal camioncino di tuo padre e mettila nella Ford T-bird di Johnny perché ho un po’ di dollari.
Profumati un pò, metti il nastro ai capelli e stai attenta a non svegliare i segugi.
Strappa un fulmine alla volta celeste e lancialo sul tronco di un cedro. Se vuoi che ti racconti il perché portami il pomello del cambio di una 49 Merc.
Sdraiati accanto a me, fatti abbracciare nella polvere e tremerai.
Prendi la notte per la gola, affonda i tuoi denti nella mia spalla, le tue unghie nella mia schiena e dì a quella ragazza di staccarsi dalla mia manica.
Sarai una donna e quando ti avrò ti innamorerai di me.
E con la mia doppietta e la scatola di cartucce celebreremo il 4 di luglio sfrecciando a 100 km/h spendendo i soldi di qualcun altro.
E guideremo sino a Reno dalla parte sbagliata della strada.

Invito al blues (o Invito al corteggiamento)
Tom Waits, Small Change, 1976
Se ne sta dietro la cassa, col grembiule ed una spatola, le consegne da sbrigare, i biglietti per la festa, movenza da libidine dai capelli sino ai piedi, sembra proprio un invito al Blues.
E ti senti d’esser Cagney … e lei sembra Rita Hayworth al bancone dello Schwab’s drug.
E ti chiedi se sia single, solitaria, o se socializza. Abbi pazienza, cogli indizi.
Lei: “cotte o strapazzate?”.
“Ogni modo sarà il giusto modo” … “Stai attenta quando punti su un uomo con una valigia e un biglietto di sola andata, con un paio di scarpe vecchie in una stanca stazione di autobus, questo non è niente altro che un invito al Blues”.
Ma non posso staccar gli occhi da lei e prendo un’altra tazza di Java, mi piace il modo in cui lo versa scherzando coi clienti: “Perdono signor Percy, niente di nuovo nel New Jersey: ho un uomo rottamato lasciato alle spalle, il sogno che inseguivo, la lotta con l’alcool e un esplicito invito al Blues”.
Ma lei aveva chi la manteneva, una Cadillac color verde mela, un conto in banca e nulla le mancava, abituata alle finezze della vita. Sino a quando lui, sempre ubriaco, la lasciò per una donna più mondana senza rimpianti, e senza mai dirle quanto fosse realmente interessato a lei.
E’ così che le presero la patente e le chiavi della macchina, persino senza scarpe rimase e le lasciarono solo un invito al Blues.
“Stasera c’è un Bus in partenza dalla Stazione, qualcuno potrebbe prendere il mio posto e io rimarrei qui per un po’. Trovatemi una stanza in hotel, compilerò la domanda per essere assunto alla stazione di servizio. Posso mangiare qui ogni notte, d’altronde cosa diavolo ho da perdere?
Una pazza sensazione mi ruota: vado o rimango? Ora devo scegliere, e accetterò il tuo invito al Blues!”

Erba verde, Tom Waits, Real Gone, 2004
Posa il capo dove una volta c’era il mio cuore, sostieni il Mondo che mi sta sopra, coricati nell’erba verde e ricorda quando mi amavi.
Avvicinati, non esser timida: sei sotto questo cielo piovoso e la luna è già alta, pensa a me mentre un treno passa.
Liberati delle preoccupazioni mentre fischietti “Didn’t he ramble”, c’è una bolla in me che fluttua verso te.
Seguimi come un’ombra, ora le cose son fatte di me.
La banderuola dirà che oggi c’è profumo di pioggia.
Dio prese le stelle e le scagliò, non riesco a distinguere gli uccelli dai fiori. Starò sempre con te e Dio farà di me un albero.
Non dirmi addio, raccontami ancora il cielo e se dovesse caderci addosso segnati le mie parole: “Cattureremo gli uccelli che canteranno per noi”.
Posa il capo dove una volta c’era il mio cuore, sostieni il Mondo che mi sta sopra, coricati nell’erba verde e ricorda quando mi amavi.

Lo porterò con me, Tom Waits, Mule Variations, 1999
Il telefono è staccato e nessuno sa dove siamo, è passato molto tempo dall’ultima volta che ho bevuto champagne.
L’oceano è blu come blu sono i tuoi occhi, porterò il ricordo con me quando me ne andrò.
Vecchi tempi andati, è trascorso molto tempo da quando vivevamo a Coney Island, non c’è bontà che muoia, porterò il ricordo con me quando me ne andrò.
Fischia un treno da molto lontano, ovunque tu vada o ovunque tu sia stata, che tu sia sveglia o dorma o sia distante, salutandoci a fine giornata, sempre per te e sempre tuo sarò. Proprio come ai vecchi tempi ci siamo addormentati nella veranda di Beaula, porterò il ricordo con me quando me ne andrò.
Abbattuto sul ciglio della strada, non più vivo o più solo, ho giocato tutte le carte, porterò il ricordo con me quando me ne andrò.
A fine giornata i bambini giocano, estranei cantano sul nostro prato, è un segno che va oltre il reale.
Tutto ciò che hai amato è ciò che possiedi: in una terra c’è una città, in quella città c’è una casa, in quella casa una donna e in quella donna c’è un cuore che amo, porterò il ricordo con me quando me ne andrò.
Porterò il ricordo con me quando me ne andrò.

Blue Valentines, Blue Valentine 1978
Lei mi invia in ogni modo cartoline d’amore da Philadelphia per ricordare l’anniversario alla persona che una volta ero.
Assomigliano ad un mandato di cattura per il mio arresto baby, ecco perché sto sempre fuggendo ed ho cambiato nome.
E non pensavo infine mi avresti trovato qui, per spedirmi cartoline d’amore come sogni sbiaditi, come sassolini nella scarpa mentre cammino in queste strade col fantasma  della tua memoria.
Baby ricordarti è come il cardo in un bacio, è il ladro che rompe il fusto di una rosa, è la promessa tatuata infranta da nascondere sotto la manica.
Rischio di vederti ogni volta che mi volto.
Mi spedisce cartoline d’amore, benché io cerchi di starle alla larga, ripetono che il nostro amore deve essere benedetto.
Per quale motivo conservo tutta questa pazzia nel comodino del letto per farmi ossessionare?.
Baby, lo so che sarei più fortunato se ovunque andassi girassi attorno a questo cuore cieco e spezzato che dorme sotto il mio bavero.
E invece ecco queste lettere d’amore per ricordare il mio peccato angolare. Non potrò mai lavare la colpa, ti prego toglimi dalle mani queste macchie di sangue.
E ci vuole molto whiskey per tenere lontani questi incubi, con il cuore spezzato sanguinante, e morirò sempre più ad ogni ricorrenza di San Valentino.
Non ricordi? Ti promisi di scriverti queste cartoline d’amore.

Kiss me, Bad as me, 2011
Il fuoco sta spegnendosi e tutte le braci annerite.
Fuori nella strada amanti nascosti nell’ombra.
Tu mi guardi e io ti guardo, c’è solo una cosa che voglio tu faccia: baciami!
Voglio che mi baci, ancora una volta, come faresti con uno sconosciuto.
Voglio credere che il nostro amore sia un mistero.
Voglio credere che il nostro amore sia un peccato.
Voglio che mi baci, ancora una volta, come faresti con uno sconosciuto
Odori dello stesso profumo di quando ci incontrammo.
Suppongo ci sia qualcosa di confortevole quando già conosci ciò che ti aspetta.
Ma dal momento in cui mi hai sfiorato, prima ancora che io conoscessi il tuo nome, tutto è stato emozionante perché da allora niente è stato più lo stesso.
Voglio che tu mi baci, voglio che mi baci ancora, come a uno sconosciuto.

Yesterday is here, Franks Wild Years, 1987
Se vuoi aver dei soldi in tasca ed un cappello a cilindro in testa, se vuoi avere un pasto caldo a tavola e un lenzuolo sul tuo letto. Bene! Oggi il cielo è grigio e domani saranno lacrime. Dovrai attendere che il passato torni qui.
Sto partendo per New York City in treno e se vorrai star qua fino al mio rientro, bene! Oggi il cielo è grigio e domani saranno lacrime. Dovrai attendere che il passato torni qui.
Ora, se vuoi andare sin dove finiscono gli arcobaleni dovrai dire addio a tutti, i nostri sogni si realizzeranno e sarà lì che troverai i tuoi ricordi.
Bene! La strada è davanti a me e la luna è luminosa: voglio sia il tuo ricordo mentre sparisco. Perché il cielo è grigio e domani saranno lacrime. Dovrai attendere che il passato torni qui.

Gli anni selvaggi di Frank, Swordfishtrombones, 1983.
Frank si stabilì nella Valley e appese i suoi anni selvaggi su un chiodo che piantò nella fronte di sua moglie.
Vendeva arredi per ufficio, là fuori, a San Francisco Road e si indebitò di 30.000 dollari al 15,25%, per acquistare una piccola casa con due stanze da letto.
Sua moglie un pezzo di spazzatura usata spenta, fatta di buoni Bloody Mary’s, stava zitta la maggior parte del tempo e accudiva un piccolo chihuahua di nome Carlos che aveva una qualche malattia della pelle ed era totalmente cieco.
Avevano una completa cucina moderna ed un forno autopulente.
Frank guidava una piccola berlina, ed erano così felici.
Una notte Frank, tornando a casa dal lavoro, si fermò in un negozio di liquori e acquistò due confezioni di birra al malto Mickey’s.
Le bevve in macchina ed in una stazione di servizio riempì la tanica da un gallone di carburante.
Guidò verso casa e la inzuppò tutta mettendola a fuoco.
Rideva parcheggiato dall’altra parte della strada e guardava la casa bruciare. Era come Halloween, arancio e poi rosso camino.
Allora Frank sintonizzò l’autoradio sulla stazione delle “Top 40” imboccando la Hollywood Freeway, e dirigendosi a nord disse: “Non sopportavo quel cane!”.

It’s over (È finita), Orphans, 2006.
Devi aver portato il maltempo con te, il cielo è plumbeo. Ciò che mi hai lasciato è una piuma su un letto sfatto.
È sempre colpa mia ogni volta che c’è un problema, ma il mondo non fa altro che girare, l’anello mi è caduto dal dito.
Suppongo non imparerò mai, ma è finita.
Brancolo nel buio, la nostra storia è finita prima che iniziasse. Confesso sempre i miei peccati, martellati come il chiodo.
Ma è finita, lascia che vada. Non fare tanto rumore per un cosa da niente, è solo una tempesta in un bicchiere d’acqua.
Ho sempre capito che non c’è niente che i soldi non possono comprare.
Sono già stato dove sto andando, non c’è più spazio per cadere, c’è solo qualcosa da dire ma per non dire niente.
È finita.
Dimenticato, a nessuno importa niente, sepolto nei vestiti che non ho mai indossato, la valigia vicino alla porta.
È finita, lascia che vada, devi lasciare che vada.

All the world is green, (La storia di Woyzeck e Marie), Blood Money, 2002
Woyzeck
Quando diventasti mia moglie mi persi nell’oceano, rischiai tutto lottando in mare per avere una vita migliore.
Marie tu sei il selvaggio cielo blu e per te gli uomini fanno cose pazze. Trasformi i Re in mendicanti ed i mendicanti in Re.
Ritieni di non dovermi niente, ma possiamo nuovamente riportare qui i vecchi tempi se il mondo è verde.
Marie
Il viso perdona lo specchio come il verme perdona l’aratro, le domande chiedono risposta: “Puoi in qualche modo perdonarmi?”. Forse quando la nostra storia sarà finita andremo dove è sempre primavera, la band suonerà la nostra canzone e tutto il mondo sarà verde.
Woyzeck
Ritieni di non dovermi niente, ma possiamo nuovamente riportare qui i vecchi tempi se il mondo è verde.
La luna è color giallo argento. Oh! Le cose che porta l’estate: un amore per cui uccideresti, e tutto il mondo è verde.
Marie
Stai pesando un diamante sopra un filo d’erba e la rugiada si poserà sulle nostre tombe quando tutto il mondo sarà verde.

Morendo di fame nella pancia di una balena, Starving in the belly of a whale, Blood Money, 2002.
La vita è breve, è una scommessa, e l’uomo è un violino sulla quale suona quando il giorno cambia e la terra trema.
La vita è sbagliare tutto il giorno, ma dimmi che a te non importa un cazzo.
Non ne uscirai mai vivo, non sognare, non fare programmi. Un uomo deve mettere alla prova il suo coraggio nel vecchio mondo corrotto morendo di fame nella pancia della balena.
Non prendermi in parola, devi solo guardare verso il cielo, quelli che ballano devono pagare il violinista.
Il cielo sta diventando scuro, i cani abbaiano, ma il mondo va avanti, dimmi che a te non importa un cazzo.
Non ne uscirai mai vivo, non sognare non fare programmi. Un uomo deve mettere alla prova il suo coraggio nel vecchio mondo corrotto morendo di fame nella pancia della balena.
Nella direttrice, è lì che sta la verità, in fondo al pozzo, in paradiso vanno le bugie.
Benedici qui i morti mentre piove, non fidarti delle corna di un toro, del dente di un doberman, di un cavallo in fuga e neppure di me.
Non essere avido né mendicante, ma se vivi sperando ballerai una melodia terribile morendo di fame nella pancia di una balena.

Everything you can think of is true, Alice 2002.
Qualsiasi cosa tu possa pensare è vera, prima che l’oceano diventasse blu ci siamo persi in un’alluvione, e nel rosso tuo sangue una ciurma di scheletri nigeriani correva.
Qualsiasi cosa tu possa pensare è vera, il piatto è scappato col cucchiaio, scava nel profondo del tuo rosso cuore perché ci stiamo decomponendo lungo il cammino.
Qualsiasi cosa tu possa pensare è vera, e i pesci ti desiderano, stiamo combattendo lungo la spina dorsale del mondo dei sogni, con fenicotteri rosa e vino costoso.
Qualsiasi cosa tu possa pensare è vera, il bambino dorme nella tua scarpa, i tuoi denti sono edifici con porte gialle e i tuoi occhi sono pesci su una riva cremosa.

Soldier’s things (Le cose di un soldato), Swordfishtrombones, 1983
Una piccola scrivania ed un tamburo, una giacca da frac.
Tovaglie e scarpe verniciate, costumi da bagno, palle da bowling e clarinetti e anelli.
E tutto ciò di cui necessita questa radio è un fusibile.
Questi oggetti hanno bisogno di un manutentore, di un sarto.
Le cose di un soldato, il suo fucile, i suoi stivali pieni di sassolini, oh! E questo è per il suo coraggio, e questo è per me e tutto in questa scatola costa un dollaro: ci sono dei gemelli per camicia e un copriruota, trofei e quaderni tascabili.
Possono essere facilmente trasportati, ma i freni del veicolo non sono a posto.
Cravatte e guantoni da box, questo coltello è arrugginito.
Puoi aggiustare quella ammaccatura del cofano.
Questi oggetti hanno bisogno di un manutentore, di un sarto.
Le cose di un soldato, il suo fucile, i suoi stivali pieni di sassolini, oh! E questo è per il suo coraggio, e questo è per me e tutto in questa scatola costa un dollaro.

Heartattack and Vine, Heartattack and Vine, 1980
Bugiardo, bugiardo con i tuoi pantaloni infiammati. Carte di picche bianche appese al filo del telefono. Giocatori d’azzardo che pesano la linea tratteggiata. Non devi mai pensare a te stesso sull’Heartattack and Vine.
Dottore, avvocato, mendicante, uomo, ladro. Philly Joe osserva incredulo. Se vuoi un assaggio di follia devi metterti in fila. Probabilmente vedrai qualcuno che conosci sull’Heartattack and Vine.  Boney si è sballato con il China White, Shorty ha trovato un Punk. Dovresti saperlo che non c’è alcun diavolo, è solo Dio quando ha bevuto.
Allora questa roba probabilmente ti ucciderà. Facciamoci un’altra linea! Cosa ne dici di raggiungermi sull’Heartattack and Vine? Vedi quella ragazza del Jersey con la maglietta trasparente e i pantaloni sopra le caviglie che beve una bibita? Bene, io scommetto che è ancora vergine, ma sono solo 25 minuti alle 9 della sera. Puoi vederne un milione sull’Heartattack and Vine.
Meglio star lontano in Iowa e lamentarsi delle tue uova strapazzate piuttosto che strisciare per Cahuenga Boulevard con le gambe rotte. Scoprirai come la tua beata ignoranza sia dannata ogni momento che attendi il tram sull’Heartattack and Vine.

No one knows I’m gone, Nessuno sa che me ne sono andato, Alice 2002.
L’inferno è sopra e il paradiso sotto, non ci sono più alberi e la pioggia ha un suono amabile per chi riposa sottoterra.
Le foglie si poseranno ogni anno e nessuno sa che me ne sono andato.
Prenditi cura di te e raccontami i tuoi lati oscuri, stai lontano da “Graveyard John”, qui ogni notte è luna piena e con la sua luce posso farmi il bagno.
Le foglie si poseranno ogni anno e nessuno sa che me ne sono andato.

Tango till they’re sore, Rain Dogs, 1985
Bene! Quando suonerai la tarantella tutti i cani cominceranno a ruggire, i ragazzi andranno all’inferno e i Cubani balleranno il Tango sino a che non farà male. Metteranno da parte i loro incubi e li lasceranno sull’uscio della porta.
Lascia che io cada dalla finestra coi coriandoli tra i capelli, apri il gioco a poker sopra il panno sulle scale, ti racconterò i miei segreti ma mentirò sul mio passato, e mandami a letto per sempre.
Assicurati che suoneranno la mia canzone preferita, suppongo lo faranno le margherite, portami a New Orleans e dipingi ombre sui banchi, gira lo spiedo e suona la grancassa e lasciami andare.
Metti il mio clarinetto sotto il letto finché non tornerò in città.
Lascia che io cada dalla finestra coi coriandoli tra i capelli, apri il gioco a poker sopra il panno sulle scale, ti racconterò i miei segreti ma mentirò sul mio passato, e spediscimi a letto per sempre.
Assicurati che lei vesta il calicò coi colori della bambola, sventola la bandiera al “Cadillac day” e lancia una padella sul muro. Bastonami o trattieni il fiato sino al tramonto. Scrivi il mio nome sul cofano e mandami in un’altra città.
Lascia che io cada dalla finestra coi coriandoli tra i capelli, apri il gioco a poker sopra il panno sulle scale, ti racconterò i miei segreti ma mentirò sul mio passato, e spediscimi a letto per sempre.

Ruby’s arms (Le braccia di Ruby), Heartattack and Vine, 1980
Mi lascerò alle spalle tutti i vestiti che indossavo quando stavo con te. Tutto ciò che mi occorre, quando dirò addio alle tue braccia Ruby, sono gli scarponi e la giacca di pelle benché il mio cuore si stia spezzando.
Uscirò furtivamente attraverso le persiane facendo presto, prima del tuo risveglio. La luce del mattino ha lavato il tuo viso, e tutto diventerà malinconico adesso.
Tieniti stretta la federa, non c’è altro che io possa fare ora che dico addio alle tue braccia Ruby. Troverai un altro, e giuro su Dio che entro Natale ci sarà qualcun altro che si curerà di te.
L’unico effetto che porto via è la sciarpa dallo stendino, in fretta oltre la cassettiera e i campanelli sospesi, mentre dico addio alle tue braccia Ruby.
A tentoni percorrerò strade buie mentre fuori, al mattino, i barboni negli scali merci terranno accesi i loro fuochi. E per Dio, nonostante questa pioggia dannata, qualcuno mi metterà sopra un treno.
Non bacerò più le tue labbra, non spezzerò più il tuo cuore mentre dirò addio alle tue braccia Ruby.

Gilda

La vera libertà è nei luoghi oscuri.

Gilda compagna di ricco imprenditore e di cultura giuridica e umanistica era un tipo speciale, qualunque cosa facesse si appassionava, prendeva maledettamente sul serio gli impegni e vi si dedicava con tutte le sue forze.
Durante la fase maniacale si impegnava contemporaneamente su più progetti pensando di disporre di infinite energie.
Ma un occhio esperto avrebbe notato che la passione di Gilda era la conseguenza e non la causa, questa incarnata da una sensibilità aumentata che rendeva totalizzante il coinvolgimento emotivo.
Lungo il periodo maniacale era in grado di lottare contro chiunque: le diseguaglianze, i prepotenti e tutti coloro i quali si frapponevano a lei. Lottava scrivendo epistole ai destinatari utilizzando un linguaggio rigoroso al limite della autorefenzialità.
Stesso discorso per gli interessi leggèri, che per lei leggèri non erano: amava gli uomini, la natura e appassionata dell’arte in tutte le sue forme, nessuna esclusa, classica, ultramoderna o bizzarra purché emozionante.
Di rado scendeva a compromessi e oramai aveva capito che il suo destino sarebbe stato relegato tra le minoranze.
Non polemizzava a chiacchiere, riteneva il componimento orale suscettibile di fallacie e fraintendimenti, le trappole retoriche erano sempre dietro l’angolo e consentivano di dichiarare vincitore chi era privo di fondate argomentazioni.
“Vieni a mangiare qualcosa e guarda questo video divertente”, Jean-Claude l’entrepreneur riportava l’attenzione di Gilda verso interessi concreti e prosaici che rendevano più felici le persone.
Gilda si avvicinava a Jean-Claude, guardava le sue forme e baciandolo sorrideva: “In fondo Jean-Claude ha ragione, che c’è di più surreale della mimica facciale di Totò che trovandosi di fronte ad un grassone nello stretto corridoio del treno, dopo gli inutili tentativi, lo fa sdraiare per poterlo oltrepassare?”.
Stava preparando una epistola per Solini, Capo del Governo, che aveva depositato in Parlamento il Disegno di Legge per la riforma delle funzioni dei ministeri.
Procedura rispettata ma organi di governo di nuova natura e la distorsione del brocardo “Nomen omen”.
Il Ministero per l’Ordine si sarebbe occupato di reprimere il dissenso al Governo;
Il Ministero della Geopolitica di realizzare l’autarchia;
Il Ministero per la Coesione di favorire la supremazia della razza Italica.

La lettera
Gilda si sedette sulla sedia della scrivania per redigere l’epistola:
“All’Ill.mo Capo di Governo Sua Eccellenza Solini.
Si sentirà soddisfatta allorquando, a discrezione, potrà declinare a suo piacimento i principi fondamentali del nostro ordinamento.
Onta su onta un ritorno al passato a tinte nere, uno sguardo al futuro che non supera i confini del cortile. Ne è testimonianza l’azione politica mediaticamente comandata dal Ministro Cobogli, incapace di proporre programmi di integrazione sociale e le cui esternazioni richiamano le parole di un ventennio che si pensava sepolto dalle fondamenta di questa Repubblica: “Ordine! Prima veniamo noi!”.
Tale malinteso concetto di ordine perché interpretato in ragione dell’esclusivo pensiero governativo impedisce il dissenso. E non c’è bisogno di direttive, i comportamenti dei funzionari si adattano al paradigma esternato da S.E. e da Cobogli giorno dopo giorno in interviste, conferenze, circolari, decreti. Un Governo democratico consentirebbe una interpretazione liberale delle norme e il diritto alla libera espressione ed al libero dissenso e soprattutto alla libera diffusione del dissenso.
Cordialmente la saluto con un augurale faidìcoddài ed un ossequioso kissmyass.
Suo Emilio Sulu.”

Buuuum! Un rumore sordo si sentì in lontananza.

La lettera sarebbe stata inviata tramite la rete informatica internazionale per ottenere diffusione massima ma questo solo dopo che una scaltra Gilda ebbe a sottoscriverla, ad infilarla nella busta, a leccare i lembi e a recarsi presso la cassetta postale di Via Tommaso Attende distante 120 minuti a piedi dalla sua abitazione. Sceglieva luoghi sempre diversi per imbucare le epistole, e in periferia, ove gli sguardi della moderna tecnologia non avevano ancora colonizzato il territorio.
Contenta del lavoro svolto ma ancora piena di energie, decise di godersi il resto del pomeriggio iniziando con un puro malto scozzese in botte singola e ascoltando in cuffia “Sous le ciel de Paris” interpretata da Yves Montand.
Ascoltava la canzone e pensava alla Ville Lumière, la città più romantica del mondo, aveva ben impresso il ricordo dei tramonti di maggio, la gioventù parigina ed il senso che si provava a passeggiare dentro il triangolo Arc de Triomphe, Tour Eiffel e Notre Dame: era come respirare aria di libertà e di rivoluzione. Ma ora si trovava nella Città eterna, meno romantica, dove erano la storia antica e rinascimentale a pompare l’ossigeno nei polmoni.

Piazza della Rotonda
Gustava il whisky di fronte al Pantheon e osservava le persone passare, ma non le osservava tutte, solo begli uomini. Anche Gilda aveva i suoi luoghi oscuri: provava piacere e godeva per la bellezza maschile il che non le impediva di amare Jean-Claude, semplicemente sentiva il bisogno di essere accarezzata e baciata anche da altri ovvero provava piacere nel poter abbracciare e baciare begli uomini.
L’intimo rivela la vera natura umana e in questo luogo i massimi sistemi rimangono in subordine”, pensava di se stessa.
Gilda puntò l’uomo che giusto usciva dal Tempio degli Dei: alto, capelli lunghi castani e occhi azzurri. Vestiva casual e colorato d’azzurro, arancio e verde che sembrava Raffaello a passeggio.
Quando gli sguardi si incrociarono Gilda imitò la postura di Lauren Bacall e abbozzò un sorriso invitante con le labbra e con gli occhi. L’invito era esplicito e non equivocabile. Il Raffaello si sedette al tavolino e ordinò una birra, Gilda deglutì lo scozzese e senza proferire parola i due si ritrovarono avvinghiati nella suite del Tritone.
In occasione di questi incontri occasionali Gilda faceva sua la massima secondo cui il pensare è per gli stupidi e l’ispirazione è la strada maestra: fecero tutto perché consentito ad una coppia di amanti, e nei momenti più intensi Gilda pensava: “Ricomincia da capo, è violento il respiro, io non so se restare o rifarti morire”.
Al termine lei lo congedò con un bacio sulla fronte.
Le energie erano inesauribili, Gilda aveva scoperto i film noir della Hollywood degli anni ’40 e passava le notti a guardare in loop i classici: da “Il grande sonno”, a “Casablanca” a “La Donna del bandito” e ultimo perché il più importante “Gilda” il cui personaggio rappresentava l’archetipo di donna che fa sempre la cosa giusta.

Tra Jean-Claude, rappresentazioni cinematografiche, ribellione all’Ordine Soliniano e luoghi oscuri, Gilda era sempre occupata e anche attenta a non rivelare ad alcuno la segreta lotta ed i piaceri extramoenia. Per inciso Jean-Claude non era da meno dei compagni occasionali.
La domanda che arrovellava Gilda era la seguente: “Quali azioni sono ammesse di fronte ad una apologia e ad un ordinamento che minano le fondamenta della convivenza civile cementata dall’uguaglianza e dalla separazione dei poteri?”.
Alla domanda seguiva la risposta: “Tutte le azioni sono ammesse, anche quelle violente ma non contro i civili, perché le libertà e la separazione tra poteri sono dei dogmi e non può essere data una loro modifica in quanto produrrebbe un ordinamento giuridico totalitario non fondato sulla convivenza civile”.

Buuuum! Un rumore sordo proveniva da lontano.

Galleria Borghese
La domenica Gilda si svegliava di buon umore, era la giornata dedicata all’arte ed aveva deciso di andare a visitare la Galleria Borghese.
Se Gilda sulle faccende riguardanti l’ordinamento della società non ammetteva ideologie diverse da quella della convivenza civile, sulle passioni artistiche era apologeta del relativismo per cui ogni gusto ha il medesimo valore dei gusti altrui.
Diceva: “Chi si innamora delle opere, delle storie, della musica, delle voci non deve dare altre spiegazioni se non quelle strettamente legate alle proprie emozioni senza doversi preoccupare di difendere i propri gusti, a motivo che la bellezza e le emozioni appartengono al mondo dei sensi”, argomentazione che lei applicava alla lettera quando sceglieva gli uomini con cui si scioglieva.
Durante la visita alla Galleria Borghese si soffermò sul dipinto di Melissa, la maga in posa fiera che libera i cavalieri già trasformati da Alcina, allo stesso modo lei avrebbe voluto liberare la nazione da Solini.
La tappa successiva fu il David, Gilda lo osservava e prendeva le misure concentrandosi sullo sforzo e sulla potenza che di lì a poco si sarebbe sprigionata e, assorta, aspettava che scendesse dal piedistallo per invitarlo alla suite del Tritone.
Sospiri lunghi e profondi tradivano la tensione di Gilda.

Dentro le mura di casa Gilda conduceva una vita ordinaria, privilegiata e libera che Jean-Claude era lieto di condividere stante la reciprocità affettiva tra i due.
Non consapevole dei luoghi oscuri di Gilda commentava degli sviluppi autoritari e di stampo razzista di Solini: “Certo, in Francia una borghesia illuminata creò il substrato ideologico che consentì alla stessa ed al proletariato di fare la rivoluzione, ma qui tutti abbiamo paura, me compreso, la mia Azienda potrebbe essere requisita con il solo cenno del capo di un funzionario governativo”.
Gilda ascoltava distaccata, non commentava e pensava: “Il faut chercher l’homme!” e per obnubilare il suo pensiero chiese a Jean-Claude: “Ti ricordi dove ci siamo incontrati la prima volta?”.
“Sicuro! Era una sera di agosto a Portofino e portavi a passeggio i tuoi capelli rossi lunghi e ondulati mentre gli occhi e il sorriso irradiavano gioia. L’abito da sera lungo e nero mi fece letteralmente capitolare. Appena ti vidi iniziai a canticchiare: “Quando ci fu un terremoto a San Francisco nel lontano 1906 …”.
Gilda rise di gusto e rispose: “Tu non sai che contemporaneamente, quando i nostri sguardi si incrociarono anch’io iniziai a cantare: “I found my love in Portofino perché nei sogni credo ancor …”.
Un campo magnetico avvicinò i corpi dei due amanti, l’amore si fece carne, il salotto camera da letto e la passione arse sino all’alba del giorno seguente.

Fumone
Fumone, ove Gilda decise di trascorrere una settimana, era l’ambiente adatto per ponderare decisioni. La storia millenaria aveva scelto la fortezza come rifugio di Re, punto d’avvistamento, prigioni papali. La fortezza era anche abitata da fantasmi cui una spiritosa Gilda si opponeva con un amuleto raffigurante Belfagor.
La settimana trascorse tra passeggiate, corse, un centimetro di buon scozzese al giorno e chiaccherate con sconosciuti.
La decisione maturò perché Gilda si recò presso un punto d’avvistamento ed accese un falò fumoso che inquietò i residenti.

Al rientro a casa Gilda controllò l’arsenale di caccia di Jean-Claude, cercava un fucile di precisione che potesse colpire l’obiettivo. Scelse 2 cartucce .308 Winchester, solo due perché non era dato sbagliare: l’azione si sarebbe dovuta realizzare in pochi secondi.
Decise il giorno, lunedì, e l’ora senza tentennamenti, si appostò dietro una feritoia del sottotetto del Tritone giusto 10 minuti prima delle 15.00.

Piazza Barberini
Alle 15.05 Solini, lo staff e gli agenti di scorta attraversavano Piazza Barberini verso il Palazzo omonimo, sede del Governo, di rientro dal pranzo.
Fu un attimo: carica, mira, sparo, ritirata.

Buuuum! Un rumore sordo provenuto da vicino.

Solini si accasciò, Gilda smontò il fucile e lo mise nello zaino, lo staff di Solini rimase in stato attònito mentre gli agenti di scorta presero posizione puntando le armi in ogni dove nell’arco spaziale di Piazza Barberini.
La folla, trascorso l’iniziale spavento, osservava distante.
Dopo 20 minuti le volanti arrivate a sirene spiegate crearono una cortina per impedire l’ingresso alla piazza.
Un agente di polizia disse: “Fate largo! Dottoressa Secondari prego da questa parte”.
Il segretario particolare di Solini riferì al suo vicino: “Informa Cobogli che è arrivata la Procuratrice Generale Gilda Secondari”.
La Dottoressa Secondari si avvicinò al corpo privo di vita e chiese ai presenti di allontanarsi, osservò Solini e diede disposizioni investigative.

Poi pensò: “Jean-Claude … voglio sentirti vicino, voglio sentirti vicino a me. Questa folla di sconosciuti e il tuo viso che vorrei incrociare. Dove sei? Ho bisogno di incontrarti. Dove stai? Ho bisogno di stare con te”.

Note Finali
Il racconto è frutto della fantasia dell’autore e non ha finalità apologetiche.
I fatti ed i personaggi sono citati oppure inventati, arrangiati o mistificati dall’autore senza nesso reale con il racconto.

Omaggi e riconoscimenti
Totò in “Totò a Parigi”
Emilio Lussu
Rita Hayworth
Cristiano Malgioglio
Fred Buscaglione e Dalida
Argo Secondari
Thievery Corporation